top of page

Numero Giugno

Benvenuti! Questa è la sezione di Cultura di Giungo

North Sentinel Island

Al mondo ci sono molti luoghi talmente pericolosi e sconsigliati che hanno fatto sì che nessuno li visitasse o che chi li visitasse non fosse poi in grado di raccontare ciò che aveva visto. E’ il caso della Snake Island,in Brasile, caratterizzata dall’eccessiva presenza di serpenti, del Lago Kivu,in Congo, dove il metano rende inaccessibile la zona o della palude di Okefenokee,in Florida,pericolosa per il rischio di essere mangiati vivi dalle piante carnivore; ma non avrei mai potuto pensare che, a pari merito con queste località, ci potesse essere un luogo dove la rischiosità fosse data dall’uomo e non da animali o elementi naturali, ed è il caso dell’isola di North Sentinel. L’isola di North Sentinel è una delle isole Andamane nel golfo del Bengala, si trova a ovest della parte meridionale delle Andamane del sud ed è il territorio di una tribù di indigeni: i sentinelesi,che rifiutano qualsiasi rapporto con il resto del mondo, rimanendo una delle poche popolazioni che non hanno mai avuto un contatto con il mondo moderno; per questo motivo si sa ben poco riguardo l’aspetto geografico dell’isola. Sorvolando alcuni aspetti storici irrilevanti, possiamo affermare che la storia di quest’isola inizi per caso nel 1771 quando John Ritchie, un agrimensore britannico, a bordo della nave “Diligent” osservò la presenza di una moltitudine di luci in quest’isola; teoricamente l’isola di North Sentinel apparteneva all’India poichè venne riconosciuta tale nel XVII secolo, ma concretamente nessuno facente parte del mondo esterno aveva mai messo piede in questa misteriosa terra. Fino ad ora si sapeva solamente che ci fosse vita in questo luogo ma solo nel 1867 si capì che tipo di esseri umani la abitavano. Infatti, nel periodo dei monsoni, una nave mercantile indiana naufragò nella zona e 106 marinai furono costretti a cercare riparo nella terraferma ma questa decisione si rivelò ancora più pericolosa poiché svegliarono lo spirito feroce dei sentinelesi che decisero di attaccare i forestieri. Nel 1880, Maurice Vidal Portman, un amministratore del governo, con l’intento di studiare il loro stile di vita, decise di riprovarci, e, approdato sull’isola, rapì sei sentinelesi e li portò a Port Blair. Il risultato? Due di loro morirono perché non avevano gli anticorpi adatti per sopravvivere in un nuovo ambiente mentre gli altri quattro, ammalati, vennero riportati sull’isola con dei doni. Nel XX secolo l’India decise di voler stabilire dei rapporti con questa popolazione, pertanto ricominciarono le “esplorazioni”. La prima, nel 1974, a cura della National Geographic che voleva registrare un documentario, non andò a finire bene poiché appena la barca si avvicinò alla costa l’intera troupe venne accolta da una pioggia di frecce, tuttavia i ricercatori fecero in tempo a lasciare alcuni doni sulla riva che vennero successivamente seppelliti dagli isolani. Dopo numerosi contatti che finirono nella stessa maniera del primo sbarco del XXesimo secolo, nel 1991 ci fu il primo contatto pacifico. Questo lo dobbiamo a Pandit Triloknath, un antropologo, che ebbe l’intelligenza di mettere all’interno della sua troupe una donna, Madhumala Chattopadhyay,in modo tale da non far percepire la loro venuta come un attacco di aggressione, poiché nel mondo sentinelese l’uomo veniva associato alla guerra perché era colui che teneva le armi. Questa volta la reazione degli abitanti fu decisamente diversa, il team ebbe l’opportunità di mettere piede nell’isola e di consegnare i doni direttamente nelle loro mani; le visite continuarono e aumentò il livello di interazione tra Pandit e i sentinelesi ma nel 2005 il governo indiano vietò l’avvicinamento a meno di tre miglia, anche per studi scientifici,rispetto all’isola di North Sentinel per non interferire con il loro stile di vita e il loro habitat, infatti l’isola viene riconosciuta come autonoma.Le ultime notizie che si hanno risalgono al 2006 quando i sentinelesi uccisero due pescatori e al 2018 quando un missionario che cercò di cristianizzare la popolazione venne ugualmente ucciso. Le informazioni che abbiamo sui Sentinelesi derivano,quindi, dalle osservazioni effettuate da imbarcazioni ormeggiate a distanza di sicurezza dalle frecce, o dai brevi periodi in cui la tribù permise alle autorità di avvicinarsi abbastanza per consegnare alcune noci di cocco. Non si sa neppure con quale nome si riferiscano a sé stessi.Quel poco che sappiamo è che cacciano e raccolgono nella foresta, e pescano nelle acque costiere. Diversamente dalla vicina tribù degli Jarawa, costruiscono imbarcazioni, canoe a bilanciere molto strette che possono essere usate solo in acque poco profonde perché devono essere guidate e spinte usando un palo, come una zattera.Si pensa che i Sentinelesi vivano in tre piccoli gruppi. Le loro abitazioni sono di due tipologie: grandi capanne comunitarie con diversi focolari per più famiglie, e rifugi provvisori senza pareti laterali e con spazio sufficiente per un solo nucleo familiare.Le donne portano una cordicella di fibra intorno alla vita, al collo e alla testa. Anche gli uomini usano collane e fasce attorno al capo mentre in vita hanno una cintura più spessa; portano anche lance, archi e frecce.Spesso i media descrivono la tribù come appartenente all' età della pietra” ma questo, naturalmente, non è vero. Non vi è alcuna ragione per credere che i Sentinelesi abbiano vissuto nello stesso modo per le decine di migliaia di anni da cui probabilmente abitano nelle Andamane. Come tutti i popoli, anche il loro stile di vita sarà cambiato e si sarà adattato molte volte. Ad esempio, oggi utilizzano il metallo che è arrivato dal mare sulle loro rive o che hanno raccolto dai resti delle barche naufragate sulle barriere coralline dell’isola. Il ferro viene affilato e utilizzato come punta per le frecce.Da quanto si può vedere a distanza i Sentinelesi sono chiaramente sani,le persone avvistate sembrano forti e gli osservatori hanno sempre visto molti bambini e donne incinte. Inizialmente, quando sono venuta a conoscenza di questa nuova realtà, mi chiedevo come mai avessero preso questa forte decisione di non avere contatti con l’esterno quando li porterebbe ad avere una vita molto più semplice e agiata grazie alle “nostre” nuove scoperte che hanno portato a numerosi vantaggi e comfort. Però, leggendo il comportamento che noi uomini abbiamo avuto nei loro confronti onestamente penso che i sentinelesi abbiano visto in noi il regresso più che il progresso. Per l’ennesima volta l’uomo moderno ha agito egoisticamente mettendo al primo posto le proprie necessità e i propri bisogni a discapito degli altri: molti isolani,infatti,sono stati uccisi per autodifesa dai ricercatori.

Eleonora Girolami; 3a, LSI
Cultura 1.jpeg
pexels-tim-mossholder-1000653.jpg
pexels-meo-724994.jpg

Meduse e cervello umano: una connessione brillante

Al mondo ci sono molti luoghi talmente pericolosi e sconsigliati che hanno fatto sì che nessuno li visitasse o che chi li visitasse non fosse poi in grado di raccontare ciò che aveva visto. E’ il caso della Snake Island,in Brasile, caratterizzata dall’eccessiva presenza di serpenti, del Lago Kivu,in Congo, dove il metano rende inaccessibile la zona o della palude di Okefenokee,in Florida,pericolosa per il rischio di essere mangiati vivi dalle piante carnivore; ma non avrei mai potuto pensare che, a pari merito con queste località, ci potesse essere un luogo dove la rischiosità fosse data dall’uomo e non da animali o elementi naturali, ed è il caso dell’isola di North Sentinel. L’isola di North Sentinel è una delle isole Andamane nel golfo del Bengala, si trova a ovest della parte meridionale delle Andamane del sud ed è il territorio di una tribù di indigeni: i sentinelesi,che rifiutano qualsiasi rapporto con il resto del mondo, rimanendo una delle poche popolazioni che non hanno mai avuto un contatto con il mondo moderno; per questo motivo si sa ben poco riguardo l’aspetto geografico dell’isola. Sorvolando alcuni aspetti storici irrilevanti, possiamo affermare che la storia di quest’isola inizi per caso nel 1771 quando John Ritchie, un agrimensore britannico, a bordo della nave “Diligent” osservò la presenza di una moltitudine di luci in quest’isola; teoricamente l’isola di North Sentinel apparteneva all’India poichè venne riconosciuta tale nel XVII secolo, ma concretamente nessuno facente parte del mondo esterno aveva mai messo piede in questa misteriosa terra. Fino ad ora si sapeva solamente che ci fosse vita in questo luogo ma solo nel 1867 si capì che tipo di esseri umani la abitavano. Infatti, nel periodo dei monsoni, una nave mercantile indiana naufragò nella zona e 106 marinai furono costretti a cercare riparo nella terraferma ma questa decisione si rivelò ancora più pericolosa poiché svegliarono lo spirito feroce dei sentinelesi che decisero di attaccare i forestieri. Nel 1880, Maurice Vidal Portman, un amministratore del governo, con l’intento di studiare il loro stile di vita, decise di riprovarci, e, approdato sull’isola, rapì sei sentinelesi e li portò a Port Blair. Il risultato? Due di loro morirono perché non avevano gli anticorpi adatti per sopravvivere in un nuovo ambiente mentre gli altri quattro, ammalati, vennero riportati sull’isola con dei doni. Nel XX secolo l’India decise di voler stabilire dei rapporti con questa popolazione, pertanto ricominciarono le “esplorazioni”. La prima, nel 1974, a cura della National Geographic che voleva registrare un documentario, non andò a finire bene poiché appena la barca si avvicinò alla costa l’intera troupe venne accolta da una pioggia di frecce, tuttavia i ricercatori fecero in tempo a lasciare alcuni doni sulla riva che vennero successivamente seppelliti dagli isolani. Dopo numerosi contatti che finirono nella stessa maniera del primo sbarco del XXesimo secolo, nel 1991 ci fu il primo contatto pacifico. Questo lo dobbiamo a Pandit Triloknath, un antropologo, che ebbe l’intelligenza di mettere all’interno della sua troupe una donna, Madhumala Chattopadhyay,in modo tale da non far percepire la loro venuta come un attacco di aggressione, poiché nel mondo sentinelese l’uomo veniva associato alla guerra perché era colui che teneva le armi. Questa volta la reazione degli abitanti fu decisamente diversa, il team ebbe l’opportunità di mettere piede nell’isola e di consegnare i doni direttamente nelle loro mani; le visite continuarono e aumentò il livello di interazione tra Pandit e i sentinelesi ma nel 2005 il governo indiano vietò l’avvicinamento a meno di tre miglia, anche per studi scientifici,rispetto all’isola di North Sentinel per non interferire con il loro stile di vita e il loro habitat, infatti l’isola viene riconosciuta come autonoma.Le ultime notizie che si hanno risalgono al 2006 quando i sentinelesi uccisero due pescatori e al 2018 quando un missionario che cercò di cristianizzare la popolazione venne ugualmente ucciso. Le informazioni che abbiamo sui Sentinelesi derivano,quindi, dalle osservazioni effettuate da imbarcazioni ormeggiate a distanza di sicurezza dalle frecce, o dai brevi periodi in cui la tribù permise alle autorità di avvicinarsi abbastanza per consegnare alcune noci di cocco. Non si sa neppure con quale nome si riferiscano a sé stessi.Quel poco che sappiamo è che cacciano e raccolgono nella foresta, e pescano nelle acque costiere. Diversamente dalla vicina tribù degli Jarawa, costruiscono imbarcazioni, canoe a bilanciere molto strette che possono essere usate solo in acque poco profonde perché devono essere guidate e spinte usando un palo, come una zattera.Si pensa che i Sentinelesi vivano in tre piccoli gruppi. Le loro abitazioni sono di due tipologie: grandi capanne comunitarie con diversi focolari per più famiglie, e rifugi provvisori senza pareti laterali e con spazio sufficiente per un solo nucleo familiare.Le donne portano una cordicella di fibra intorno alla vita, al collo e alla testa. Anche gli uomini usano collane e fasce attorno al capo mentre in vita hanno una cintura più spessa; portano anche lance, archi e frecce.Spesso i media descrivono la tribù come appartenente all' età della pietra” ma questo, naturalmente, non è vero. Non vi è alcuna ragione per credere che i Sentinelesi abbiano vissuto nello stesso modo per le decine di migliaia di anni da cui probabilmente abitano nelle Andamane. Come tutti i popoli, anche il loro stile di vita sarà cambiato e si sarà adattato molte volte. Ad esempio, oggi utilizzano il metallo che è arrivato dal mare sulle loro rive o che hanno raccolto dai resti delle barche naufragate sulle barriere coralline dell’isola. Il ferro viene affilato e utilizzato come punta per le frecce.Da quanto si può vedere a distanza i Sentinelesi sono chiaramente sani,le persone avvistate sembrano forti e gli osservatori hanno sempre visto molti bambini e donne incinte. Inizialmente, quando sono venuta a conoscenza di questa nuova realtà, mi chiedevo come mai avessero preso questa forte decisione di non avere contatti con l’esterno quando li porterebbe ad avere una vita molto più semplice e agiata grazie alle “nostre” nuove scoperte che hanno portato a numerosi vantaggi e comfort. Però, leggendo il comportamento che noi uomini abbiamo avuto nei loro confronti onestamente penso che i sentinelesi abbiano visto in noi il regresso più che il progresso. Per l’ennesima volta l’uomo moderno ha agito egoisticamente mettendo al primo posto le proprie necessità e i propri bisogni a discapito degli altri: molti isolani,infatti,sono stati uccisi per autodifesa dai ricercatori.

Giada Slongo; 3a LSI

La Notte del Classico: tra apollineo e dionisiaco

Anche quest’anno si è celebrata la “Notte Nazionale dei Licei Classici”, giunta alla sua nona edizione Venerdì 05 Maggio 2023. Essa è un evento che si svolge in contemporanea nei Licei Classici di tutta Italia e che ha come finalità la promozione della cultura classica, nonché la valorizzazione del curricolo del Liceo Classico. Ha una durata di sei ore, dalle 18:00 alle 00:00, in un’unica data che viene stabilita dal Coordinamento Nazionale, sentito il parere dei referenti di tutti i Licei aderenti. Coordinamento Nazionale, sentito il parere dei referenti di tutti i Licei aderenti. Ogni scuola sceglie un tema che più accomuna le sue attività ed in particolare quest’anno il liceo “Dante Alighieri” di Trieste ha celebrato il tema del dionisiaco tra rappresentazioni teatrali, discussioni filosofiche, esibizioni musicali e piccoli sketch organizzati da studenti e professori. Vediamo quindi che cos’è il dionisiaco. Il termine fa parte della filosofia e riflessione nietzscheana ed in particolare della sua prima opera “La Nascita della Tragedia dallo Spirito della Musica” scritta nel 1872, dove Nietzsche offre una riflessione, di fatto senza precedenti, sull'interpretazione del mondo greco. Egli infatti dice che l’Occidente ha prodotto un’immagine distorta di quel passato che viene presentato come il mondo della filosofia razionale di Socrate, Platone ed Aristotele, filosofi illuministi greci ante litteram che promuovono una visione razionale e teoretica della realtà. Secondo Nietzsche non è sempre stato così. Precedente a quel periodo, in Grecia, ce n’è stato uno dove invece lo spirito era pervaso da due impulsi che erano in armonia e contrapposizione: l’apollineo e il dionisiaco, la cui perfetta sintesi è stata trovata nel valore estetico della tragedia greca (del periodo dei drammaturghi Sofocle ed Eschilo). L’apollineo è lo spirito che scaturisce dalla forma, da un atteggiamento razionale, dalla plasticità nell’arte (come nel Discobolo di Mirone), dalla completezza, dalla luce di Apollo. Nel mondo però non c’è solo questo. Infatti all'apollineo si contrappone il dionisiaco, che scaturisce dal divenire di Eraclito, dalla forza vitale che si esprime nella musica e nella poesia lirica. Il mondo greco quindi è lo scontro e la contrapposizione di queste due forze, che trova però un momento di perfetta sintesi: la tragedia greca. In essa infatti non troviamo solo la razionalità e la ragione delle vicende di un eroe epico che tenta di dare una forma alla sua vita, ma la storia è pervasa dalla tragicità espressa dalla musica del coro, dalle scelte del fato e dagli dei che lo travolgono. La perfetta rappresentazione di questo fenomeno lo troviamo in tragedie come “Medea” (rappresentata a Trieste durante la Notte dei classici da ragazzi di classe terza) che tradita da Giasone decide, come vendetta di fronte all’infinita disperazione provocatale, di uccidere i figli suoi e del marito, tentando di provocargli altrettanto strazio. Come ha fatto però l’uomo a dimenticarsi di questo mondo? Secondo Nietzsche ci sono stati dei responsabili della morte di tale spirito e questi sono Socrate (platonizzato) per la filosofia ed Euripide per la tragedia. Loro sono gli assassini del dionisiaco e di quest’armonia. Socrate dà razionalità e concettualità alla vita, pretendendo di definire l'esistenza in un unico concetto e di spiegare teoreticamente la vita che in realtà è un abisso in costante divenire. Euripide invece uccide Dioniso sotto i colpi del realismo secondo il quale tutto deve trovare la sua giusta collocazione e via d’uscita. La vita però non è un qualcosa di esclusivamente razionale, la vita è tragica e in tensione tra due spiriti opposti, quali l’apollineo e il dionisiaco, e secondo Nietzsche negarlo è uccidere la stessa vitalità e forza dell’uomo. Concludendo, è quindi in serate come queste che risorge lo spirito e la vitalità dell’uomo, rievocati dalla classicità che viene riproposta dai ragazzi anche in chiave moderna ed ironica, come nell’ultimo spettacolo dove tra una scena e l’altra dell’Hecyra la vicenda veniva raccontata come tipico dialogo tra due signore triestine che parlano in dialetto mentre si incontrano sul tram.

Leonardo Maruccio de Marco; 3a LSI
pexels-min-an-1448709.jpg

PERCHÉ LEGGERE TOLKIEN?

Tutti almeno una volta nella vita abbiamo sentito parlare di "Hobbit", o provato a pronunciare la parola "tesoro" sibilando la esse in modo molto accentuato. Tutti hanno certamente sentito parlare di John Ronald Reuel (J.R.R.) Tolkien, come scrittore di fantasy popolare ai tempi dei nostri genitori o autore di storie fiabesche ricolme di personaggi stravaganti: gnomi, fate, draghi e quant'altro. L'intento di questo articolo è di sfatare miti e luoghi comuni errati riguardo al genio di questo brillante scrittore. Proprio per questo prego il lettore, malgrado la noia profonda che questo articolo sarà forse in grado di suscitare, di rimanere sintonizzato fino alla fine. Nato da genitori inglesi il 3 gennaio del 1892, a Bloemfontein, Sud Africa, J.R.R. Tolkien si trasferisce all'età di tre anni in Inghilterra assieme alla madre e al fratello minore. La sua infanzia è scandita dalla dolorosa perdita di entrambi i genitori, motivo per cui viene affidato a Francis Morgan dell'oratorio di Birmingham, dal quale riceve una educazione rigidamente improntata ai principi del Cattolicesimo. Fin da giovane Tolkien si dimostra un ragazzo dotato di una spiccata fantasia ed intelligenza e si afferma come ottimo studente. Durante tutto il corso della sua vita, nella quale da studente diventerà Professore di Lingua e Letteratura Anglosassone ad Oxford, Tolkien si dedicherà alla creazione di vere e proprie lingue (una su tutte l'Elfico, nelle sue varianti) e alla stesura delle molteplici opere ambientate nell'immaginario universo di "Arda", fortemente influenzate dai conflitti mondiali in cui egli stesso combatterà. Protagonista di uno dei migliori adattamenti cinematografici di sempre (la trilogia di film ha vinto complessivamente 17 oscar, di cui 11 solo con il terzo episodio), il Signore degli Anelli è la più lunga e complessa opera di Tolkien, nonché la più rinomata. Pubblicato nel 1954, complice il grande successo del precedente "Lo Hobbit", il Signore degli Anelli spopolò fin da subito. Il romanzo si presenta come un vero e proprio "mattone", un tomo di circa 1250 pagine (variabili a seconda dell'edizione) completo di Appendici, utili a comprendere a fondo il mondo all'interno del quale si svolgono le vicende narrate. È un libro, insomma, dallo spessore intimidatorio. Eppure è in grado di affascinare ogni lettore, senza distinzione di genere o età, purché, beninteso, sia disposto a lasciarsi trascinare in una realtà più magica e genuina, quella della "Terra di Mezzo". È un libro riuscito in ogni suo aspetto, perché vi si può trovare il giusto bilanciamento fra comicità e angoscia, leggerezza e pathos, amore ed odio, e l'intreccio fra i complessi filoni narrativi sfocia nella vittoria del Bene sul Male. "Ma tanto è la classica storia del cavaliere ideale, le cui innate doti in battaglia gli permettono di sconfiggere numerosi nemici e di trionfare, infine, sul malvagio nemico: una storia già vista. Per di più, non vi è alcuna donna nel racconto, le poche presenti svolgono ruoli minori". Piano, piano! Non così alla svelta. Per cominciare è bene porre qualche premessa. È vero che all'interno del romanzo non vi sono molti personaggi femminili (seppur di elevato lignaggio), ed è senz'altro vero che la maggior parte di essi non svolgono un ruolo rilevante ai fini del racconto, a differenza di quanto traspare dai film. Tuttavia i personaggi sono mossi da sentimenti e valori assoluti: nelle loro gesta, nelle loro azioni, prevale una componente umana attribuibile ad ognuno di noi. I protagonisti non sono solamente capaci di grande lealtà, di uno spiccato senso dell'onore e di grande valore in battaglia, come nei cicli arturiani o carolingi. Essi sono, per così dire, difettosi, in grado di provare paura e sconforto, capaci di sbagliare e di provare emozioni contrastanti. Maschio o femmina che sia, ciascun lettore può facilmente immedesimarsi, almeno parzialmente, in loro. L'opera è però anche di pregevole fattura se la si considera su un piano filosofico, dal momento che è pregna di insegnamenti etico-morali. Sebbene J.R.R. Tolkien stesso, in una delle sue tante lettere al figlio Christopher, sostenesse che la sua opera non andasse vista come un'allegoria della realtà, è impossibile non ricondurre alcuni dei suoi elementi alla società odierna. La Contea, presso la quale è stanziato il popolo degli Hobbit, rappresenta per Tolkien un mondo ideale, un'Utopìa dove le verdi colline ed i boschi sono estranei alla guerra e all'industria, che invece è incarnata da Isengard, una delle due roccaforti del nemico. Al suo interno gli abitanti convivono serenamente, dediti all'agricoltura e all'allevamento, ed i beni sono comuni a tutti i residenti, essendo di fatto una società di tipo comunista. Tuttavia, con la partenza dei quattro compagni Hobbit dalla Contea alla volta di Brea, villaggio abitato dagli Uomini, il viaggio viene proiettato in terre più pericolose e malvagie, essendo gli altri popoli più meschini, meno onesti ed ospitali: ciò che Hobbes ha saggiamente definito homo homini lupus. In questo senso, l'Anello si presenta come la più grande delle tentazioni per gli Uomini, conferendo al portatore immenso potere e la capacità di dominare su tutto e tutti. Più volte durante il corso del racconto l'Anello dà prova della sua malvagia potenza, essendo stato forgiato dal "Signore Oscuro" in persona. Ciò è particolarmente evidente con Boromir, uomo facente parte della Compagnia che, pur essendo buono e virtuoso, cede alla tentazione di prendere l'Anello per sé, creando grande scompiglio all'interno del gruppo e perdendo la fiducia che i suoi compagni riponevano in lui. È questo episodio che racchiude, secondo me, la lezione più importante che il romanzo ha da offrire: gli uomini, per quanto buoni, sono deboli. È questa loro debolezza, questa imperfezione, questa loro sete di potere che li spinge a fare il male. Di conseguenza, la chiave per sconfiggere il Male è saper resistere alle tentazioni, cosa a cui tutti gli uomini (chi più chi meno) sono soggetti. Ed infatti è Frodo, uno Hobbit (il lettore noti, non un Uomo), che più di tutti dimostra di saper resistere alla malvagità dell'Anello, portandolo dalla Contea fino alle pendici del Monte Fato, dove sarà distrutto una volta per tutte. Tolkien è stato in grado non solo di scrivere opere valide da un punto di vista prettamente linguistico, ma anche di interpretare scrupolosamente le difficoltà e gli affanni di una società sempre più in tumulto. Non basterebbe una pagina di giornale per spiegare la grandezza, la complessità della sua mente, ma spero di aver correttamente indirizzato il lettore verso una comprensione meno superficiale di questo scrittore geniale, spesso incompreso.

Sofia Sartori; 2^a, LCE
tree-stump-palace.jpeg

“Jugoslavia 1990”
Quando lo scenario di guerra diventa quotidianità 

La guerra di indipendenza della Croazia fu un conflitto combattuto tra il 1991 e il 1995 tra le forze leali al governo Croato contro le forze serbe. Le città maggiormente colpite sono Ragusa, Sebenico, Zara, Karlovac, Sisak, Slavonski Brod, Osijek, Vinkovci e in particolare Vukovar. Per sapere qualche dettaglio in più riguardo la vita di tutti i giorni in uno scenario di guerra (applicabile anche al giorno d’oggi nel conflitto tra Ucraina e Russia), abbiamo intervistato una persona che la guerra l’ha vissuta tutta, prima di arrivare in Italia nei primi anni duemila. Quella che noi oggi chiamiamo ex Jugoslavia sappiamo essere formata da diversi stati come Slovenia o Serbia, ma puoi dirci esattamente chi ne faceva parte e da cosa si era uniti? <> Come era la vita di una famiglia media nella Repubblica Jugoslava, notoriamente di stampo socialista? <> Come e quando è iniziato tutto? <> Cosa è cambiato nella tua vita quotidiana? <> C’è qualche altro episodio in particolare che ti è rimasto impresso nei ricordi? <

Andrea Merlo; 3a LSI

L'identità europea 1:
Massimo Cacciari

Europa/Cristianità: trovare il nesso logico per mettere in relazione due concetti così complessi non è certo facile. Qualche tempo fa il Professor Massimo Cacciari è intervenuto nell’Aula Magna dell’Università di Pavia per un dialogo con l’allievo Filippo Moretti sul ruolo della Cristianità nella definizione di un’identità comune europea. Massimo Cacciari è un filosofo ed un uomo politico italiano, inizialmente di orientamento marxista, eletto due volte tra il 1993 e il 2005 come sindaco di Venezia per il centro-sinistra. Tra i suoi temi di riflessione più caratteristici è spesso presente il piano teologico, nonostante egli non sia credente La conferenza inizia trattando una prima opzione per collegare le due parole, ovvero “Cristianesimo E Europa”, è infatti scontato dire che il cristianesimo sia un fattore determinante per la civiltà europea. Va fatta però una distinzione terminologica tra ciò che è il Cristianesimo, ovvero una religione, e che cosa rappresenta invece la Cristianità, ovvero un’intera civiltà segnata da quella religione. Si tratta di una vera e propria comunità che vive l’annuncio del regno di Dio attraverso la tradizione, ed è proprio qui che si articola una delle riflessioni di Cacciari: quali sono le tradizioni? Qual è il loro valore? Innanzitutto l’annuncio, quindi la rivelazione di Dio attraverso un libro, si presenta nella tradizione cristiana come antidogmatico e problematico perché non è esaustivo e richiede una continua ricerca. Ad esempio, è proprio Gesù che, in alcuni versi evangelici, rivolge la domanda “Chi credete che io sia?”. Anche la Bibbia richiede un’interpretazione, non è sufficiente la lettura. C’è infatti chi teorizza che l’Europa sia arrivata all’epoca Illuminista proprio perché c’era questa possibilità di mettere in discussione tutto. La religione cristiana è anche fattore di contraddizione perché mette in discussione la civiltà che allo stesso tempo fonda, un qualcosa di completamente opposto a religioni come l’Islam, che tendono a strutturare e consolidare la società, con esiti anche nel diritto. Uno dei testi più emblematici che inaugurano questa contraddizione è La Città di Dio di Agostino. Ci viene raccontato che la Città di Dio è qui, questa è la sua dimensione. Tuttavia anche il suo opposto, la Città dell’Uomo è qui ed è proprio questa, anche se sono totalmente separate perché la prima punta al cielo e la seconda alla terra. Le due città sono quindi in perenne contraddizione: i membri della Città di Dio sono i cristiani che vivono secondo gli insegnamenti del signore, ma se esiste anche la Città dell’uomo vuol dire che ci sono molti cristiani che non vivono secondo le indicazioni dei Vangeli. La Città di Dio è una continua critica all’esistente ed il cristianesimo è forse l’unica religione con una critica interna così forte, già nel Medioevo, verso il potere politico e quello spirituale. Cacciari sposta poi la riflessione sul rapporto tra fede e ragione, che sarà il cuore della seconda parte della conferenza. Nel cristianesimo c’è una netta distinzione tra le due, per i credenti la fede è superiore ma non è mai contro la ragione. L’idea cristiana dice quindi che l’intelletto cerca la verità della fede. La ragione ci porta a capire che l’universo ha un senso, un logos, e il senso lo deve dare un qualche creatore, la cui identità ci viene però rivelata dalla fede. Il cammino del credente è un cammino verso un Dio sempre più profondo, il cui culmine è l’estasi, la rivelazione dell’identità del creatore, il “vedo Dio” di Dante Alighieri. La seconda alternativa al rapporto tra Cristianesimo ed Europa, spiega Cacciari, impone una scelta, O uno O l’altro. É un’idea che comincia a nascere già con piccoli accenni nel medioevo, un’idea che la verità di fede non abbia nulla a che fare con la verità razionale/scientifica. L'unico dio che posso conoscere con la ragione non è un dio, ma la natura e l’unica verità è portata dalla ragione e dalla scienza, la fede semplicemente si tollera. Questa tolleranza implica non solo una gerarchia dove la fede è subordinata dalla ragione, ma lascia il pensiero religioso al popolo basso, a coloro che sono più “ignoranti” perché non hanno accesso ad una vera “educazione”. Il culmine di questa posizione sarà nell’Illuminismo (‘700), dove la fede sarà vista solo come una superstizione. Nel 1800 le idee filosofiche cambiano un po’ e nascono nuove correnti come l’Idealismo, che sostiene che non solo la separazione illuminista è un errore, ma la religione cristiana è una tappa nel percorso della ragione che arriva fino al pensiero idealista. Inoltre la religione, spiega l'idealismo, ha gli stessi contenuti della filosofia, cercano l’assoluto, un logos nella storia degli uomini. Un’opinione contrastante è quella di Marx (uno dei discepoli di Hegel) che ci spiega che non solo Dio non esiste, ma bisogna liberarsi della religione per realizzare l’uomo veramente. Una sua famosa affermazione è “la religione è l’oppio dei popoli”, popoli che hanno bisogno di libertà ma questo bisogno è stato defraudato dalla religione che ha spostato nell’aldilà tutti i bisogni ed i sogni di cambiamento. Cacciari ci porta successivamente fino al 1900, dove si individuano tre principali linee di pensiero. La prima è quella cattolica, ad esmpio l’opinione di teologi come Guardini che affermano che “l’Europa rinascerà solo se torna cristiana”. Contrastante è l’affermazione di Husserl, un fenomenologo degli anni ‘30, che sostiene che “l’Europa è la scienza e il grande prodotto storico dell’Europa è la ragione”, seguendo quindi una linea scientista/neo-illuministica. L’ultima posizione è quella liberale, che ci presenta la teoria della ragione calcolatrice, ovvero i singoli sono in legame tra di loro tramite contratti, che possono essere rappresentati dall’utile. Quando Cacciari arriva alla sua conclusione, propone la sua alternativa: Cristianesimo CON Europa. Non ha molto senso dire che “l’Europa è cristiana e solo cristiana” o “illuminista e solo illuminista”, l’Europa è tutte queste cose in continua discussione. La cosa più importante è stare dentro la propria tradizione e confrontarsi. Chi si arrocca in una sola verità segnerebbe la fine dell’Europa.

Imagoeconomica_985445-1-992x692.jpg
Anna Lant; 3a, LSI
‎cose_edited.jpg
‎Numero Giugno.‎11.jpeg
‎cose_edited.jpg

L'identità europea 2:
J. A. Ratzinger

L’influenza del monachesimo nella formazione dell’identità europea secondo Ratzinger

In occasione del 150esimo anniversario delle apparizioni di Lourdes, il 12 settembre 2008 si tenne un viaggio apostolico in Francia, dove, nel Collège Des Bernardins, Papa Ratzinger aprì una conferenza. Il tema principale che venne discusso fu la teologia occidentale come elemento complementare alla nascita della cultura europea. Prima di entrare nel vivo della questione è bene conoscere la figura di Ratzinger da una nuova prospettiva: non nelle sue vesti di Papa ma in quelle di teologo. Ratzinger è stato infatti uno dei più grandi studiosi di quella disciplina che cerca di indagare e approfondire la conoscenza di Dio attraverso l’utilizzo della ragione illuminata dalla fede: la teologia. Nonostante il suo ruolo, Ratzinger non parla di una gerarchia tra le due entità, dove un elemento, la fede, si sovrappone all’altro, ma di una complementarietà, dove uno è funzionale all’altro. L’idea di fondo è quindi comparabile a quella di San Tommaso D’Aquino, fondatore del tomismo: il pensiero filosofico più significativo del medioevo. Il tomismo sosteneva che la fede e la ragione fossero conciliabili poiché quest’ultima, non essendo sufficiente per raggiungere Dio, ha bisogno della fede, detentrice della verità superiore, per elevarsi a Lui. Questo pensiero viene allegoricamente rappresentato da Dante nella Divina Commedia, attraverso l’impersonificazione della ragione e della fede. Virgilio rappresenta la ragione, difatti è colui che guiderà Dante nei limiti della natura, mentre Beatrice l’armonia costituita dalla fusione tra la fede e la ragione. Virgilio sarà in grado di accompagnare Dante lungo tutto il viaggio ma, per raggiungere il Paradiso, nonché l’assoluto, l’autore avrà bisogno di Beatrice, l’allegoria della teologia. Ratzinger pensa che la ragione per essere se stessa abbia necessariamente bisogno della fede, esattamente come Dante. Perciò la tesi sostenuta dal Papa, anche in questo discorso, va in netto contrasto con la mentalità che si è instaurata in occidente lungo il corso del ‘700, con l’Illuminismo, quando iniziò a diffondersi l’idea della ragione come unica via alla verità e della fede come portatrice di ignoranza e superstizioni; affermando una vera e propria gerarchia tra di esse. Ratzinger contrasta in maniera netta queste posizioni oggi dominanti,dichiarando: “Una ragione che pensa che tutto ciò che è religioso sia una sottocultura non riuscirà mai a far parte del dialogo delle culture”. L'Europa,però,è caratterizzata da un dialogo tra tante culture differenti, per questo motivo per vivere in serenità tra popoli non possiamo affidarci solo alla ragione, nel suo essere più puro, ma ad una “ragione illuminata dalla fede”. Ma se l’Europa si è formata in un dialogo tra tante culture diverse, dove ha trovato l’elemento che l’ha unita? O meglio, quali sono le sue radici? È proprio a questo che il Papa ha cercato di rispondere durante il suo discorso del 2008; il luogo in cui si è tenuta la conferenza e il nome scelto da Ratzinger, dopo essere diventato Papa, sono due fattori che possono indurci a trovare la risposta. Il cardinale Ratzinger, dopo esser stato eletto pontefice, scelse il nome di Benedetto in onore del suo predecessore, Benedetto XV, e del monaco cristiano Benedetto da Norcia. Benedetto XV, eletto nei primi anni del Novecento, fu noto per il suo impegno nel perseguimento della pace in un'epoca segnata dalla prima guerra mondiale, da lui definita una “inutile strage”. Ma la decisione fu anche relativa a San Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine benedettino nonché patriarca del monachesimo occidentale. Per Ratzinger,quindi, non fu casuale la scelta del nome Benedetto, come non lo fu quella di tenere la conferenza al Collège Des Bernardins, un monastero francese esistente già ai tempi di Innocenzo IV. Ratzinger quindi parla davanti al mondo laico della cultura francese in un monastero perché pensa che l’esperienza di fede cristiana abbia qualcosa da dire, ai laici e ai fedeli delle altre religioni. Il Papa, come già accennato, crede che le radici della cultura europea abbiano trovato origine tra le mura dei monasteri occidentali, l’unico luogo ad aver custodito la cultura classica in un periodo incerto. Il monachesimo consiste in un isolamento da parte di persone profondamente religiose che hanno una visione ascetica del mondo e che quindi cercano di costruire le proprie “isole” dove poter realizzare il Regno di Dio. Il modello monastico nasce in Europa durante il IV secolo e si sviluppa in Italia con San Benedetto da Norcia lungo il VI secolo,con la comparsa dei nuovi monasteri basati sulla regola benedettina: “ora et labora”. I monasteri benedettini hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia della Chiesa cattolica, la loro rete di monasteri era ben organizzata e diffusa in tutta Europa, e il loro stile di vita ascetico ha influenzato molti aspetti della cultura occidentale. I monaci benedettini si dedicavano alla preghiera, al lavoro manuale e alla vita comunitaria, tramandando opere letterarie, artistiche e scientifiche di grande valore. Tornando alla questione iniziale, Ratzinger sostiene che le radici della cultura europea coincidono con la nascita di questi primi monasteri. In mezzo al caos delle invasioni barbariche, che generavano distruzione e grande instabilità, i monasteri rappresentavano dei veri e propri fari culturali poiché, attraverso i monaci amanuensi, che conservavano e trascrivevano i testi classici, hanno permesso la trasmissione della conoscenza della cultura antica. La domanda che sorge spontanea è: perchè trascrivevano dei testi appartenenti alla cultura classica e quindi pagani? Il motivo è che il loro obiettivo non era tanto quello di tramandare opere classiche ai posteri ma quello di trovare una verità, un qualcosa di essenziale, nella convinzione che in ogni cultura, in particolare nelle opere della romanità, ci fosse una verità che meritava di essere ascoltata. Ratzinger sottolinea il loro "Quaerere Deum”, ovvero “cercare Dio”, il loro interesse era quello di trovare Dio attraverso i testi sacri, attraverso la sua parola (Bibbia e altri testi sacri…). Il loro fine era di trovare l’essenziale in mezzo a tutto ciò che era superfluo, la loro mentalità, quindi, si presenta in maniera escatologica, ma non nel senso cronologico,come attesa dell’aldilà, ma in un senso esistenziale ed essenziale: trovare dietro al provvisorio il definitivo,Dio. Si diffonde, quindi, la cultura della parola e insieme ad essa la nascita delle prime scuole e delle biblioteche, per poter comprendere la Parola. La particolarità del monachesimo occidentale, rispetto a quello orientale, è che la ricerca di Dio avviene in maniera comunitaria, ad esempio attraverso il canto, che deve avvenire in maniera ineccepibile.“La parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica , ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede”. In conclusione Ratzinger ci fa riflettere sul fatto che il “Quaerere Deum” serviva ieri tanto quanto oggi, perché se noi dicessimo che tutta la riflessione religiosa è inutile e ci affidassimo solo alla scienza, quest’ultima ci porterebbe verso una strada molto lontana dall’umanesimo: una strada che vuole andare oltre all’uomo, quella del“Transumanesimo”.

Eleonora Girolami; 3a,LSI

Il giovane Holden, giovane 
per sempre

Immergersi nella lettura di un cosiddetto romanzo di formazione, il cui protagonista è più o meno un proprio coetaneo che passa dall'infanzia all’adolescenza e infine all'età adulta, è sempre un'esperienza speciale e particolarmente stimolante, in quanto spunto di riflessione e fonte di ispirazione, immedesimandosi nel personaggio attraverso il suo viaggio, con prove e sfide da superare, errori e esperienze della crescita da affrontare, nel quale conosce meglio se stesso, le proprie capacità e limiti. "Il giovane Holden" è appunto un romanzo di formazione, sfortunatamente non riuscita, in cui viene affrontato il difficile passaggio del protagonista dall'adolescenza all'età adulta. Holden vuole rifiutare questo passaggio al mondo dei grandi, caratterizzato da regole castranti e da una moralità ipocrita. Ma meglio non addentrarsi a spiegare la trama perché, come per ogni altro romanzo, possiamo capirne il senso profondo solo leggendolo interamente e non da una veloce sfogliata o un breve riassunto, che non rende giustizia al libro. Il suo autore, Jerome David Salinger, insegna a non giudicare un libro dalla copertina. Infatti fu lo stesso Salinger a pretendere che il suo libro non avesse nessun tipo di immagine in copertina, ma fosse interamente bianco a eccezione del titolo e del suo nome, perché voleva che i lettori lo scegliessero solo per la curiosità di leggerne i contenuti (nonostante la sua richiesta, l'edizione originale presenta un'illustrazione che ritrae il cavallo della giostra citata nel romanzo). Inoltre Salinger, di carattere schivo e riservato, fa dire al protagonista: "Leggo un sacco di classici. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quello che segue, vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira". Salinger nasce il primo gennaio 1919 a New York. E proprio a New York è ambientato il suo capolavoro, "Il giovane Holden", pubblicato nel 1951, diventato da subito un vero fenomeno letterario e con più di 60 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Il protagonista, Holden Caulfield, è un ragazzo di sedici anni, che racconta la sua avventura in prima persona. Egli è dotato di senso critico e sensibilità, ma psicologicamente è fragile, odia la violenza e si considera un vigliacco. La storia si svolge negli anni Cinquanta e Salinger, con una sensibilità derivante dal proprio passato che l'ha profondamente segnato, è riuscito a dar voce alla ribellione degli adolescenti nei confronti del mondo degli adulti e della società contemporanea. Negli anni Cinquanta i giovani si identificarono con il protagonista del romanzo, Holden Caulfield, e con i suoi sentimenti di inquietudine, alienazione, confusione, frustrazione e difficoltà di comunicazione con gli altri. Lo scrittore dimostra grandi capacità attraverso il linguaggio colloquiale, talvolta critico, tipico degli adolescenti americani di quegli anni, usa molto lo slang, espressioni gergali, talvolta sgrammaticate e anche volgari, che gli procurarono duri attacchi da parte dei critici contemporanei. Una delle parole più usate da Holden Caulfield è "phony" (falso), che lui adopera per indicare coloro che considera ipocriti. Holden ha difficoltà a crescere, perché teme che crescendo diventerà il tipo di persona che più detesta. Considera il mondo degli adulti “phony”, rimanendo puntualmente deluso quando durante la storia incontra personaggi del suo passato ormai inquadrati in quel mondo, e gli unici momenti in cui si sente veramente felice sono quelli che trascorre con la sorella minore Phoebe o con i bambini in generale, poiché li considera innocenti e puri. Holden dice a sua sorella che vorrebbe essere "The catcher in the rye" (titolo originale dell'opera, allude a una strofa di una nota canzone in scozzese di Robert Burns e nasce dalla storpiatura del secondo verso da parte di Holden) cioè l'acchiappatore nella segale, per salvare i bambini che giocano in un campo di segale prima che questi cadano dal precipizio, che metaforicamente potrebbe rappresentare la soglia dell’età adulta. Holden è come un contemporaneo Peter Pan, ma la sua storia non è una favola e non ha un lieto fine, o meglio non la fine che Holden sperava. Il romanzo ha ispirato intere generazioni di giovani nel bene, ma anche nel male, come il folle assassino di John Lennon, Mark Chapman, che l'8 dicembre 1980 venne trovato dalla polizia sul luogo del delitto a New York, con atteggiamento indolente mentre aveva con sé una copia del romanzo di Salinger, sostenendo di esserne stato ispirato. Ha influenzato inoltre capolavori sia cinematografici sia televisivi, teatrali, musicali, letterari, d’animazione e anche videogiochi; ed è anche questo che rende "Il giovane Holden" davvero giovane per sempre.

Eva Manti; 2^a, LCE

L’attimo fuggente, un sogno da realizzare 
 

“Carpe diem, cogliete l'attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita” 

 

John Keating, “L’attimo fuggente”

Il 16 dicembre 2022 si è svolta l’assemblea d'istituto e uno dei film proposti è stato "Dead poets society” ( alias “L’attimo fuggente”). Questo film non solo suscita forti emozioni con scene toccanti e colpi di scena, ma ci insegna qualcosa di davvero importante: cogliere l’attimo… Cogliere l’attimo? Il primo significato del termine attimo è “secondo”, unità di misura che al giorno d’oggi sembra insignificante. Insomma, cosa si può fare in un solo attimo? Fondamentalmente nulla, ma come greco e latino ci insegnano, non dobbiamo soffermarci sulla prima parola che troviamo nel dizionario, ma dobbiamo andare in profondità per cercare una definizione che più ci soddisfi. Proviamo a non concentrarci sulla singola parola ma su tutta l’espressione e prendiamo come esempio uno dei personaggi principali del film: Neil Perry. La vita del ragazzo è infatti costantemente condizionata dal volere del padre, il quale non lascia al figlio la possibilità di diventare un attore (il più grande desiderio di Neil). Dopo l’incontro con il professor Keating, che invece sprona i ragazzi a lottare per il loro futuro e per i loro sogni, il giovane decide di unirsi segretamente ad una compagnia teatrale e grazie alle sue eccezionali capacità viene scelto per interpretare il protagonista in uno spettacolo. Il suo compagno di stanza Todd, al quale come Neil era stato imposto un futuro rigido e senza felicità dalla famiglia, cerca di convincere l’amico a dire la verità ai suoi genitori, ma Neil è troppo preso dalla voglia di realizzare il suo sogno che non lo ascolta e prosegue sulla sua strada. Questo porterà a delle conseguenze negative, ma non vogliamo fare spoiler a chi non ha ancora visto il film.  Commentiamo la scelta di Neil piuttosto: sicuramente coraggiosa, ma avventata. Al giorno d’oggi è difficile prendere una decisione di questo tipo, non credete? Ma allora perché lo ha fatto? Insomma, Perry non era certo un personaggio con poco cervello e  sapeva che sarebbe finito nei guai…C’è una risposta a questa domanda? Ebbene sì, potremmo trovarne tantissime  a dire il vero.  Quando qualcuno ci impone una qualsiasi cosa (e magari lo fa in modo poco carino) il nostro cervello la percepisce come un obbligo e questo ci dà fastidio, in quanto inconsciamente ci sentiamo impossibilitati a scegliere, portandoci spesso a fare il contrario di quello che ci viene detto. Questo accade soprattutto in età adolescenziale e, nel caso di Neil, quando queste imposizioni riguardano le parti più profonde di noi: i sogni e le speranze future.  Nonostante ciò, soprattutto negli ultimi anni, i nostri sogni vengono spesso infranti o messi da parte e gli artefici di ciò siamo proprio noi stessi. Molto spesso, per paura di non piacere agli altri, di fare brutte figure o di essere derisi, evitiamo di dire la nostra idea o di fare qualcosa che ci piace, lasciando sfuggire “l’attimo”.  Il consiglio che il professor Keating dà a tutti noi è quindi quello di essere noi stessi e di lottare per ciò che vogliamo, puntando in alto ma restando coi piedi saldi al pavimento, perchè solo così potremmo immaginare i nostri sogni e concretizzarli nel  mondo reale.

Sofia Sartori; 2^a, LCE

Mercoledì: la serie che 
rilancia strepitosi personaggi

Mercoledì, la nuova serie Netflix ideata dall’acclamato regista americano Tim Burton, ha spopolato tra i giovani e ha avuto un enorme successo sui social, specialmente su TikTok e Instagram. Lo spin-off, composto da 8 episodi, segue le vicende di Mercoledì Addams (Jenna Ortega), un’adolescente brillante e disillusa che si conforma ben poco alle aspettative della società. Per scampare a un’accusa di tentato omicidio, i suoi genitori decidono di mandarla alla Nevermore Academy, presitigiosa scuola per reietti e mostri come sirene, lupi mannari e gorgoni; la scuola si trova nei pressi della piccola cittadina di Jericho, nella quale vivono i “normali”, coloro che non hanno nessun tipo di anormalità. Mentre cerca in ogni modo di fuggire e riacquistare l’indipendenza persa, Mercoledì viene coinvolta in un inquietante mistero sugli attacchi di un mostro e sarà compito suo e dei suoi compagni Enid (Emma Meyers), Tyler (Hunter Doohan) e Xavier (Percy Hynes White),affiancati dalla fidata Mano (Victor Dorobantu),  svelare l’enigma che si nasconde dietro alla città e ai suoi abitanti.  Durante le indagini Mercoledì dovrà affrontare numerosi ostacoli, come la preside della Nevermore, Larissa Weems (Gwendoline Christie), che tenta invano di contenerla, e lo sceriffo Galpin (Jamie McShane), padre di Tyler, che cerca ogni modo per sabotare le indagini della ragazza.  Ancora una volta, la genialità di Tim Burton non delude il suo pubblico: unendo il gotico-macabro e il soprannaturale a tematiche profonde e attuali, come il razzismo e le influenze di una società profondamente discriminatoria, racconta una storia che celebra la diversità con un perfetto tocco di ironia. Ottima è anche la scelta della colonna sonora, caratterizzata da toni cupi e dark, e del cast, che ha saputo interpretare i personaggi al meglio. Tutti gli attori hanno recitato dando il massimo per ogni scena e rendendo questa serie ancora più bella e di successo. In particolare, ha fatto emozionare la performance di Jenna Ortega che, con sguardo gelido e umorismo tagliente, ha saputo rendere il personaggio di Mercoledì persino più accuratamente che nelle trasposizioni cinematografiche precedenti. Le sue scene ormai iconiche, come l’assolo di violoncello del primo episodio o il ballo, sono diventate virali sui social e hanno definito ancora meglio il talento unico dell’attrice. A lei affiancano come personaggi secondari Catherine Zeta Jones (Morticia Addams), Luis Guzmán (Gomez Addams) e Isaac Ordonez (Pugsley Addams) e Isaac Ordonez, (Pugsley Addams), interpretando i membri della famiglia Addams. Un ruolo maggiore viene assunto dallo zio di Mercoledì, Fester (interpretato da Fred Armisen), che per un episodio aiuterà Mercoledì nelle indagini. Importante è anche la comparsa nel cast di Christina Ricci (nei panni dell’insegnante Marilyn Thornill), famosa per il ruolo di Mercoledì nei film “La Famiglia Addams” (1991) e “La Famiglia Addams 2” (1993). Insomma, questa serie sembra diventata una vera e propria opera cinematografica apprezzata da tutti, sia adulti che bambini. La trama è ricca di colpi di scena e ci ha tenuti con il fiato sospeso sin dal primo momento: aspettiamo con ansia una seconda stagione!

Aurelio Cassano 3B LCE, Irene Zoffi 3C LCE
‎Numero Giugno_edited.jpg
‎1_edited.jpg

Did you know that there’s a tunnel under ocean blvd?

Sapevate che c’era un tunnel sotto Ocean Boulevard? Si chiama  Kerkins Tunnel ed era stato costruito in origine come un passaggio sotterraneo per consentire alla gente di raggiungere la spiaggia con più comodità, sotto Ocean Boulevard in Long Beach, California. E’ rimasto chiuso, però, dagli anni Sessanta.  Questo tunnel è stato di grandissima ispirazione per la cantautrice statunitense Lana del Rey, tanto che l’ha spinta a scrivere il suo nuovo album, intitolato proprio “Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd?”, pubblicato il 24 marzo di quest’anno. “Sarebbe un concetto preoccupante essere sigillato e rinchiuso con tutte queste cose meravigliose all’interno, che nessuno vedrebbe mai di te”, ha detto la cantante in una recente intervista alla rivista Rolling Stone. “Similmente, credo di essere arrivata a un punto tale in cui le mie doti di artista mi rendono un simbolo, una persona famosa e idolatrata. Dentro di me c’è, però, una parte nascosta e sigillata che solo la mia famiglia conosce, una specie di tunnel metaforico”. Ed ecco quindi ciò che l’ha ispirata a scrivere il suo nono album in studio, in cui  si avvicina come mai prima d’ora alla sua intimità e alla sua vera sé, rivelando aspetti della sua persona che nessuno conosceva. Ci dà, in questo modo, l’occasione di conoscerla in modo più personale, e vederla sotto una nuova prospettiva. Riflette e riporta alla memoria alcuni dei ricordi che più hanno avuto impatto sulla sua vita, dal complesso rapporto con sua madre, alla perdita di persone care, fino all’importanza che ha per lei la famiglia, riflettendo sul lutto, la solitudine e dolore nella sua storia familiare. Tutto questo è espresso alla perfezione nel testo di “The Grants”: “Doin’ the hard stuff, I’m doin’ my time/I’m doin’ it for us, for our family line.” Non si lascia però abbattere da questi sentimenti negativi, aggrappandosi alla speranza: il dolore che lei prova è complementare a una speranza di riunirsi, un giorno, con le persone che ha perduto.  Nel suo singolo “A&W”, inoltre, affronta la sua recente rottura con l’ex fidanzato Sean Larkin, esternando tristezza e rabbia. E’ stata molto chiara sui suoi sentimenti nei confronti di lui: inizialmente, infatti, Lana aveva affisso un unico cartellone per promuovere l’album, proprio nella città in cui vive l’ex fidanzato. Visti quindi i temi e la sincerità con cui parla di se stessa, possiamo dire che in questo album Lana del Rey si allontana dalla sua identità di femme fatale per cui era tanto conosciuta, e che ha distinto i suoi precedenti lavori, come “Born to Die” e “Lust for Life”. Rimane lo stesso, però, lo stampo dell’album e quindi il suo modus operandi, con continui riferimenti alla cultura pop, elementi originali e inaspettati all’interno delle canzoni (come la registrazione di un sermone, personalmente registrato dalla cantante in chiesa durante una messa) e una scrittura che la distingue per il modo enigmatico e misterioso con cui esprime i suoi sentimenti. Tutti questi elementi rendono l’album affascinante e ammaliante, catturando l’attenzione di chi ascolta. Ci si sente come sotto un incantesimo: una volta ascoltata la prima canzone, si vuole solo continuare ad ascoltare le altre, per rimanere in questa dimensione e per conoscere sempre più a fondo la cantante. Ancora una volta, quindi, Lana del Rey dimostra di essere una delle cantautrici più d’impatto e innovative della nostra epoca.

Marx, Engels e la Critica alla Borghesia ne “Il manifesto del Partito Comunista”

Premessa: Il seguente articolo, derivato da una relazione stesa originariamente in lingua tedesca per la materia di Storia in Tedesco, si propone di ricostruire e sintetizzare la critica mossa da Marx e Engels al ceto Borghese, che tanto potere economico e politico aveva acquisito nel corso del XVIII e XIX secolo. Le informazioni presenti nel testo sono nella stragrande maggioranza derivate dal ‘’Manifesto del Partito comunista’’ dei due autori. Al fine di contestualizzare nella maniera migliore i contenuti del testo, si propone innanzitutto un breve excursus biografico riguardante Karl Marx e Friedrich Engels. Successivamente si analizzeranno le ragioni per le quali, secondo i due, è avvenuta l’ascesa della borghesia. Infine, si indicheranno e spiegheranno i demeriti e le colpe da loro attribuite a tale classe e le soluzioni alla ‘’Questione Borghese’’ che essi propongono. Biografia di Marx ed Engels Karl Marx, nato nel 1818 a Treviri (Germania) in una famiglia appartenente al ceto medio (il padre era avvocato), si interessò fin dalla giovane età alla politica, all’economia, e più in generale alla filosofia. Nel corso dei suoi studi, e soprattutto in ambito universitario, fu influenzato dal pensiero del filosofo Friedrich Hegel e dei suoi discepoli più radicali e riformisti. Marx supportò gli ideali di tali pensatori soprattutto all’inizio della sua lunga carriera. Più tardi, fu anche condizionato da ideali vicini al primo socialismo e da economisti di epoche passate, quali Adam Smith, il quale fu però in seguito da lui fortemente contestato. Marx visse poi in diverse città Europee, come Bruxelles e Londra, dove divenne conosciuto per le sue teorie economico-filosofiche, parzialmente racchiuse nell’opera giovanile (1848) ‘’Manifesto del Partito Comunista’’ e poi approfondite e parzialmente modificate ne “Il capitale”. Esse lo renderanno uno dei più importanti filosofi dell'economia della storia, insieme proprio ad Engels. Quest’ultimo nacque nel 1820 a Barmen, sempre in Germania. Figlio di un imprenditore tessile, fu da lui costretto a lasciare la scuola in età liceale per lavorare per l’azienda di famiglia. Questa, che lo portò tra l’altro a poter osservare le condizioni di lavoro degli operai dell’impresa, fu per Engels una prima, fondamentale tappa per la formazione del suo pensiero. Già dai primi articoli di giornale scritti dal filosofo in verde età, egli criticò infatti molto aspramente gli ideali ed il modus operandi degli industriali della sua epoca. Nondimeno, grazie al suo lavoro per l’azienda familiare, ebbe la possibilità di viaggiare per l’Europa ed entrare in contatto con i maggiori circoli e movimenti culturali del continente, grazie ai quali conobbe anche Marx. Con quest’ultimo condivise molti ideali e lavorò insieme alla realizzazione di diverse opere, tra cui la più famosa divenne per l’appunto il ‘’Manifesto’’. Nascita e Ascesa della Borghesia Proprio in questo testo, come scritto precedentemente, sono contenuti gli aspetti salienti della teoria della lotta di classe come motore della storia e della critica rivolta dai due Filosofi alla classe borghese. Quest’ultima avrebbe trovato le sue origini, secondo loro, nelle ceneri della società feudale medievale. Si sa infatti che i primi borghesi erano proprio gli abitanti dei ‘’borghi’’ delle città medievali, e si occupavano spesso di artigianato o piccole attività commerciali. Con la scoperta dell’America e l’apertura di nuove rotte però, e successivamente ancora l’inizio dello sfruttamento da parte degli europei delle nuove terre scoperte, la società feudale si trasformò pian piano in quella del mercantilismo, che vide proprio questi primi borghesi affermarsi e ottenere sempre maggiore ricchezza. Al tempo stesso, le risorse importate dai nuovi territori consentirono un aumento della produzione di beni, che a sua volta condusse a un forte progresso tecnologico. A sua volta ciò portò a un’ulteriore espansione del mercato mondiale, che però, in quanto più grande, ora necessitava però di maggior produzione, e così l’evoluzione tecnologica precedentemente ottenuta fu sfruttata anche in ambito produttivo. Il risultato di tale applicazione fu la rivoluzione industriale. Le nuove manifatture e fabbriche che contraddistinsero questo momento storico erano però controllate proprio da quei borghesi che avevano il dominio sulle attività commerciali, che divennero così i primi ‘’Grandi Borghesi Industriali’’. Il potere economico da loro raggiunto divenne presto ineguagliabile, ponendoli presto all’apice della piramide sociale. Ciò comportò, per la legge implicita che lega storicamente il controllo dell’economia a quello della politica, la conquista di cariche istituzionali rilevanti nei Paesi dove l’industria proliferava maggiormente. L’influenza politica della Borghesia assunse proporzioni tali, per Marx ed Engels, che essi definirono le strutture politiche del loro tempo ‘’comitati per il controllo degli affari economici’’. I crimini della borghesia secondo M. e E. La Borghesia avrebbe raggiunto dunque, per i due economisti, una Supremazia quasi egemonica sulla società. Secondo loro però, tale egemonia è pericolosa: i borghesi non sarebbero infatti in grado di ‘’regnare’’ sul mondo senza causare in esso danni e ingiustizie gravissime. Tra i maggiori misfatti della borghesia vengono raccolti qui i seguenti: La rimozione di tutti i sentimentalismi e tutte le credenze che tenevano insieme i rapporti economici. La borghesia avrebbe azzerato per M. e E. tutti i crismi e convenzioni socio-religiose, che giustificavano un tempo eventuali rapporti di disparità tra il venditore e il compratore, il feudatario e il servo della gleba, ma anche il padre e il figlio, sostituendole con la sola transazione monetaria. Tale sostituzione non significava tuttavia aver ridotto di fatto tali disparità, ma semplicemente cancellato tutte quelle superstizioni che prima ‘’addolcivano la pillola’’ a chi si trovava in svantaggio, che poteva consolarsi tramite esse. La creazione di un mondo che rispecchiasse solo i valori e gli interessi borghesi. Grazie alla costruzione di un mercato internazionale fortemente voluto dai borghesi, l’interdipendenza tra i vari stati salì e le barriere tra di essi furono abbattute. Ciò che aveva un tempo un valore in quanto patrimonio intellettuale dell’identità di un Paese, divenne semplicemente un frammento nel mare della nuova ‘’Weltkultur’’. Così, la proprietà culturale delle nazioni divenne insignificante, inglobata in una nuova, unica scienza, un nuovo pensiero e stile di vita: quello borghese. La sottomissione della campagna alla città e delle colonie all’Europa. L’ingombrante apparato industriale sviluppato dalla borghesia avrebbe costretto, secondo i due filosofi tedeschi, una consistente parte della popolazione agricola a trasferirsi in città per produrre nelle fabbriche, privando le zone rurali della loro forza lavoro, e rendendole di fatto dipendenti dalle città. Ugualmente, sfruttando e togliendo le risorse alle colonie, esse divennero ben presto il ‘’giardino di casa’’ delle potenze europee, che infatti imposero un dominio spietato sui territori conquistati. La centralizzazione politica. La borghesia, concentrando i mezzi di produzione, la popolazione, e le ricchezze in pochi luoghi e poche mani, avrebbe causato un’eccessiva e non necessaria centralizzazione politica. Le crisi di sovrapproduzione. Le politiche economiche dei borghesi, nel tentativo di aumentare continuamente il profitto, avrebbero portato ad un eccesso di mezzi di produzione e di beni rispetto alla capacità del mercato di recepire tali beni ed assorbirli, causando crisi di sovrapproduzione gravissime. Ancora più deplorevole di questo comportamento sarebbe però la soluzione proposta dalla borghesia a tali crisi, consistente nella distruzione di alcuni mezzi di produzione (con le ovvie relative conseguenze), la sottomissione di nuovi mercati al suo modello di sviluppo e lo sfruttamento ancora più massiccio dei mercati già esistenti. Lo sfruttamento del lavoratore Forse il più famoso demerito attribuito alla borghesia, lo sfruttamento del lavoratore assumerebbe, secondo Marx ed Engels, caratteristiche comuni per tutta la classe dei subordinati. Gli impiegati (al tempo quasi tutti operai) non lavorerebbero secondo loro per sopravvivere, ma proprio il lavoro sarebbe il fine per il quale vivrebbero, poiché per i borghesi i lavoratori sarebbero nient’altro che merce, che ha un valore solo nel momento in cui produce. In un contesto del genere, i dipendenti verrebbero considerati equivalenti a un’appendice della macchina che operano, e in quanto tali di fatto proprietà del padronato, possessore dei mezzi di produzione. Inoltre, non vi sarebbe altra differenza fra un lavoratore e un altro se non quella riguardante il volume produttivo: un bambino e un adulto per esempio, risulterebbero diversi solo perché l’uno produce meno dell'altro, necessitando di minore pagamento. Come se ciò non fosse abbastanza, l’operaio verrebbe sfruttato per M. e E. non solo in ambito professionale, ma, una volta finito il turno di lavoro, anche da tutti gli altri borghesi da cui avrebbe dovuto acquistare beni e servizi. L’alternativa a un sistema capitalista-borghese secondo M. e E. Le accuse mosse dai due economisti tedeschi sono dunque particolarmente pesanti, così come radicale è l’alternativa da loro proposta al dominio borghese. Innanzitutto però, Marx ed Engels tengono a precisare che la borghesia è stata, con il suo comportamento, creatrice autonoma dei fautori della sua futura distruzione: i cosiddetti proletari. Costoro, secondo le previsioni dei filosofi, man mano che la produzione industriale sarebbe aumentata avrebbero visto peggiorare progressivamente le loro condizioni. Ciò avrebbe provocato un risentimento tale in alcuni, che essi avrebbero cominciato singolarmente a combattere contro i loro padroni. Tuttavia i singoli proletari si sarebbero ben presto accorti di avere uno scopo comune, e così si sarebbero uniti tra loro in una guerra di classe che sarebbe sfociata in rivoluzione. Una guerra che non avrebbero potuto che vincere, dato il loro forte senso di unità, di cui invece la borghesia invece non disponeva. Proprio questo sentimento li avrebbe poi resi migliori governanti dei borghesi: a differenza di questi, il proletario non aveva interessi privati: suo unico obiettivo era proteggere gli interessi di classe.

Emiliano Raffaglio 4^C LCE
bottom of page