top of page
pexels-helena-jankovičová-kováčová-6826428.jpg

Numero
Febbraio

Benvenuti!
Questa è la sezione di cultura di febbraio!
Screenshot 2024-02-12 at 5.22.13 PM.png
Screenshot 2024-02-12 at 5.22.56 PM.png

IL CARNEVALE MAMOIADINO

In Sardegna, nel cuore della Barbagia di Ollolai, a Mamoiada, il 17 gennaio si apre la stagione del Carnevale. Mamoiada è un piccolo paese le cui origini risalgono al Neolitico e, come tutta la Sardegna, è ancora segnata dalle invasioni e colonizzazioni alle quali la popolazione barbaricina ha opposto una strenua resistenza, e tutt’oggi, custodisce un patrimonio immateriale unico. Nella contemporaneità questi legami con il mondo primitivo, mascheramenti o riti mascherati, hanno dato vita alle arti rituali, forme di creatività nate da una memoria che trova le proprie radici nella storia dei territori e delle popolazioni di appartenenza e che, nel corso del tempo, si sono plasmate assecondando i cambiamenti sociali, culturali e religiosi delle comunità di origine. Per questo motivo a Mamoiada, il 17 gennaio, in occasione della celebrazione di Sant’Antonio abate si accendono falò per rievocare il santo e i Mamuthones attraversano i rioni del paese al comando degli Issohadores,secondo il rigoroso schema di una “marcia” cadenzata dal ritmo unisono di passi e da fragorosi suoni di campanacci. Le origini delle maschere Non è semplice definire con certezza le origini dei Mamuthones e degli Issohadores, tuttavia la grande diffusione del mascheramento con pelli, campanacci e maschere facciali antropomorfe o zoomorfe suggerisce l’esistenza di radici comuni. Dall’Egeo all’Italia, dai Balcani alla Grecia, dalla Scandinavia alla Russia all'Ucraina alla penisola iberica, le genti di montagna o pedemontane documentano tradizioni mascherate mediante le quali, tra la fine di dicembre e i primi giorni di febbraio, si invitano le forze della terra e degli antenati, esorcizzando quelle del male, a propiziare prosperità e ricchezza per la comunità. Questa tipologia sembra puntare verso una comune origine precristiana le cui radici si possono indicare nei passaggi tra il Paleolitico e il Neolitico, quando la vita veniva ancora scandita tramite i passaggi stagionali. Infatti, anche in altre aree del Mediterraneo si sono sviluppate altre arti rituali che presentano le stesse radici propiziatorie rurali dei Mamuthones e degli Issohadores, come: - i Krampus, in Friuli Venezia Giulia - i Kurent, in Slovenia - i Zvončari, in Croazia Il vestiario del rito: i nomi La maschera dei Mamuthones e degli Issohadores va intesa nel suo più grande travestimento corporeo. I Mamuthones generalmente indossano un bonette (cappellino tipo basco) sopra la visiera (maschera facciale nera) fermata da un muncadore (fazzoletto) scuro, di tipo femminile; alla zanchetta (giacca) si sovrappone la pedde (grande gilet di pelle di pecora nera, noto anche come mastruca), sopra la quale vi è la carriga (gruppo di campanacci che può arrivare a pesare 25-30 kg ca.). I carzones (pantaloni) sono tradizionalmente in velluto e ai piedi indossano gli husinzos (scarponi di tipo rustico). D’altra parte gli Issohadores, riconoscibili perchè solitamente non indossano alcuna maschera facciale, hanno sopra il viso una berritta (copricapo tradizionale) tenuta al mento da un fazzoletto colorato di tipo femminile, un curittu (corpetto rosso), un issalletto (scialle frangiato) sopra i pantaloni bianchi e una cintura di sonajolos (piccoli sonagli). I pantaloni sono fermati da cartzas (gambali) e scarpe. Tra le mani solitamente hanno una soha (lunga corda, generalmente di giunco o di cuoio). Nonostante l’abbigliamento delle due maschere sia totalmente differente, è utile notare alcuni aspetti comuni: elementi dell’abbigliamento femminile, manufatti sonori, rimandi al mondo animale come pedde, campanacci, campane e soha. Infine, emergono appartenenze sociali:mentre nella maschera del Mamuthone ricorrono elementi “poveri e rozzi”, maggiore finezza e pregio appaiono in quella dell’Issohadores richiamando la diversità di rango. Per questo motivo non si può escludere che queste differenze nel vestiario facciano rientrare Mamuthones e Issohadores nel noto dualismo “maschere belle” e “maschere brutte”. La maschera del Mamuthone di Mamoiada La maschera del Mamuthone di Mamoiada è uno dei simboli più conosciuti della Barbagia nonché l’elemento più importante dell’intero corredo del costume del Mamuthone. La maschera tradizionale è di colore nero, realizzata interamente con tecniche artigianalii e legni selezionati. Si parte dal tronco di legno che viene sbozzato a colpi d’ascia, questo viene poi fissato sul tavolo con una morsa e si procede con lo svuotamento. Colpi sempre più precisi plasmano gradualmente il volto del manufatto fino a farlo diventare un pezzo unico. Cosa simboleggiano i Mamuthones e gli Issohadores? Dietro il significato di queste due maschere si celano varie interpretazioni. Una delle più accreditate è quella del rito propiziatorio legato al ciclo della natura, infatti il rito avviene il 17 gennaio: si rinnova il ciclo solare a metà dell’inverno. Il suono dei campanacci, infatti, serviva a scacciare via gli spiriti maligni. L’uomo, indossando la maschera, si spoglia delle sue sembianze umane ed entra in contatto con le divinità per favorire le annate agrarie. D’altro canto, questo rito, potrebbe far riferimento a degli avvenimenti storici più recenti, come la lotta dei sardi contro i mori, i vincitori e i vinti, o meglio: il dominio cristiano sui pagani. Il rituale: il suono e il silenzio La sfilata dei Mamuthones e Issohadores è un vero e proprio rito sonoro. Al suono fa da contrasto il silenzio delle maschere e dello spazio delineato dai corpi celati dal travestimento. Innanzitutto la sfilata viene preceduta dalla vestizione, che rappresenta la “metamorfosi” da uomo a Mamuthones o Issohadores, un momento di grande solennità. La vestizione rappresenta un rito sacro e profano insieme: le varie fasi vengono eseguite con grande scrupolo, con le modalità di una cerimonia religiosa ma allo stesso tempo non sono presenti alcuni aspetti tipici religiosi, come la presenza di una figura guida che celebra da un altare. Una volta che viene indossata la maschera, i Mamuthones e Issohadores diventano degli esseri misteriosi, da uomo si diventa “animale-dio”. Dopo la vestizione, inizia la vera e propria sfilata. L’arrivo si annuncia a distanza grazie al suono che viene generato da un sistema di sonazzos, hampaneddas e sonajolos (“campanacci”, “campanelle” e “sonagli”) che vengono rispettivamente posizionati sulla schiena e sul petto tramite delle cinture. Il suono imponente e costante avviene grazie ai secchi movimenti di una danza nella quale campanacci e campanelle sono il prolungamento del corpo: centrale per la sua forza che costituisce uno scudo protettivo contro le insidie della natura. Solitamente il capo Issohadore dà ordini ai Mamuthones e ritma la loro danza, mentre gli altri Issohadores lanciano la propria fune catturando le giovani donne in segno di buon auspicio per una buona salute e fertilità. A differenza dei Mamuthones,che sono tenuti al mutismo, gli Issohadores possono interagire con il mondo circostante. Il gruppo, disposto secondo uno schema molto rigido costituito da due file parallele, si muove lentamente, esercitando sui presenti una forte suggestione che rende la processione quasi ipnotica.

Eleonora Girolami, 4 LSI
Screenshot 2024-02-12 at 5.22.46 PM.png
Screenshot 2024-02-12 at 5.22.23 PM.png
Screenshot 2024-02-12 at 5.22.33 PM.png

RICETTA DAL PASSATO

INTRODUZIONE Quest’anno abbiamo affrontato l’inserimento di una nuova materia, ovvero letteratura latina. Per comprendere meglio cosa sia un’edizione critica, che spesso incontriamo nei manuali di letteratura, la prof.ssa Orsaria ci ha affidato questo laboratorio paleografico da svolgere, che ci ha consentito, non solo metaforicamente, di iniziare a mettere le mani in pasta! TRASCRIZIONE DEL TESTO Beethoviane !!!! 15/06/47 (1947) ! 600g (grammi) farina Zucchero a piacere (poco) 50g (grammi) lievito Sale Si fa il I (primo) lievito, poi il II (secondo) poscia si fa uno sfoglio alto un dito e si tagliano tanti dischetti. Si lasciano riposare un’ora e poi si friggono con molto olio. Si EDIZIONE CRITICA Il testo analizzato è incompleto ed è stato redatto su un foglio di carta a quadretti, probabilmente non pregiato, poiché ora appare usurato e si possono notare alcune riparazioni con lo scotch. Lo strumento utilizzato per scrivere sembra essere stato una penna stilografica, dal momento che il testo non presenta tracce di sbavatura, tipiche della stesura ad inchiostro e pennino e non sembra corrispondere nemmeno alla scrittura con penna a sfera. Lo scritto è evidentemente una ricetta. Possiamo anche notare che il foglio presenta macchie (probabilmente di unto), pieghe em varie tracce di usura. Desumiamo con una certa fondatezza, quindi, che potrebbe aver fatto parte di un libretto da cucina, utilizzato a volte con le mani sporche. Il testo, inoltre, sembra essere stato scritto in velocità, infatti, alcune parole sono difficilmente decifrabili e vengono utilizzate delle abbreviazioni. Il documento è datato al 15 giugno 1947, giorno che risulta essere stato una domenica. L'autore è sconosciuto e così pure il destinatario. Tuttavia, grazie a un’analisi dell’ambiente sociale, possiamo ipotizzare che il profilo di chi scrive appartenga ad una classe media, dato che il testo non presenta errori grammaticali e, negli anni ‘40, non tutti avevano accesso ad una buona istruzione. Inoltre il titolo rimanda, probabilmente, ad un riferimento musicale non riconducibile alla dimensione popolare. Potrebbe essere stato scritto da una donna, considerato che in quegli anni cucinare era un'attività principalmente femminile. Il destinatario, invece, potrebbe essere stato un membro della famiglia o un amico, visto che la ricetta non è scritta con cura e sembra redatta più per scopi funzionali che formali. Inoltre, il fatto che alcuni passaggi siano sottintesi e non descritti nel dettaglio, ci porta a pensare che il destinatario fosse qualcuno abituato alla pratica culinaria. Non è da escludere però, che lo scritto sia stato un appunto per uso personale, tramandato negli anni. Tuttavia, non abbiamo informazioni certe sul profilo dell’autore e del possibile destinatario, quindi quelle che precedono sono solo delle ipotesi desunte dall’analisi ‘paleografica’ del testo. Dalle ricerche, infine, non sono emerse attestazioni note della ricetta. Il nome, quindi, è stato probabilmente inventato dallo scrivente o potrebbe aver fatto parte del lessico familiare. Ad ogni modo risulta evidente la somiglianza tra questa ricetta e quella delle frittelle di pasta lievitata, tipo crostoli o chiacchiere carnevalizie. SOLUZIONE È domenica 15 giugno 1947, ci troviamo nella piazza antistante al teatro “La fenice”, a Venezia, dove è possibile acquistare i biglietti per un concerto di Beethoven. Mentre attendono in fila, due donne si scambiano una ricetta. L’uomo in coda dietro di loro, Raffaello M., un amante dei dolci e della buona cucina, oltre che della musica classica, che di professione fa il disegnatore tecnico, le sente e decide di appuntarsi la ricetta per poi darla a sua moglie. Tuttavia, nella fretta, egli si perde il nome originale della ricetta e quindi la soprannomina “Beethoviane”, in riferimento al concerto di Beethoven, per il quale stava comprando i biglietti. Il testo finisce, quindi, in un ricettario familiare, usato e consultato da quattro generazioni da allora ad oggi.

Andrea Merlo, 4 LSI
Screenshot 2024-02-12 at 5.47.47 PM.png

Cesare: 
tra bellum iustum e atti disumani

Come scrive Amelia Carolina Sparavigna¹nel suo testo Giulio Cesare e i Germani, è totalmente errato affermare che a Roma la notizia dello “sterminio” delle popolazioni galliche sia stato preso come un “crimine contro l’umanità”, per il semplice fatto che a Roma non esisteva nulla di paragonabile alle forme di diritto moderno. Le uniche due forme di diritto romano si basavano sul principio della fides ed erano lo ius gentium (per i rapporti con i popoli stranieri) e lo ius civile (per regolare i rapporti dei cittadini romani). Lo ius gentium era a sua volta influenzato da un’altra firma di diritto più antica: lo ius fetiale. L'origine dello ius fetiale risale al periodo regio di Roma (VIII-VI secolo a.C.) ed era strettamente connesso con la religione romana. Coinvolgeva sacerdoti specializzati, noti come fetiales, il cui ruolo primario era la dichiarazione formale di guerra. Infatti, prima che Roma potesse impegnarsi in bellum, i fetiales erano incaricati di eseguire una serie di rituali sacri e formali che coinvolgevano l'invocazione degli dei e la richiesta di giustificazione per la guerra. Con il passare del tempo però, l'importanza dello ius fetiale diminuì. Un’altra forma di diritto, lo ius gentium, diventò invece fondamentale, poiché rispondeva al meglio alla politica imperialistica di Roma. È da precisare però che lo ius fetiale non subì mai una vera e propria "laicizzazione" nel senso moderno del termine. Le istituzioni e gli istituti giuridici romani rimasero strettamente connessi alla sfera religiosa e alle pratiche consuetudinarie, troviamo prova di ciò anche nei testi scritti da Cicerone. Una guerra era considerata giusta quando i Romani la conducevano seguendo il rituale feziale, stabilendo così che la "guerra giusta" per il popolo romano doveva rispettare una procedura rigidamente definita dal diritto e dalla religione romana. Questo primo insieme di norme giuridiche chiamate ius gentuim, come dice il nome (ius=diritto; gentium=delle persone) regolava esclusivamente rapporti di natura commerciale e contrattuale ma non estendeva le sue radici in ambito di diritti umani e libertà personali. Questo perché l’idea di valore della persona, in particolare dei poveri, nasce solo con la diffusione del Cristianesimo ². L’espressione “guerra giusta” in senso etico-morale, di fatti, trova le sue radici nel primo Cristianesimo, e un suo successivo ampliamento nel Medioevo, quando il pensiero politico-religioso cristiano ha sviluppato la teoria del bellum iustum romano (che era strettamente legato allo ius fetiale e gentium), apportando alcune modifiche e legandolo all'ambito religioso. Con l'avvento del Cristianesimo (I secolo d.C.) la concezione della guerra ha subito un significativo cambiamento. Il messaggio di Gesù Cristo “Amate i vostri nemici” era inevitabilmente incompatibile con la visione romana della guerra. Agostino di Ippona (V secolo d.C.) ha collegato il messaggio cristiano alla guerra, sostenendo che essa può essere giustificata solo se voluta dalla divina Provvidenza. Fatte queste premesse, possiamo andare al cuore del discorso. Molti autori moderni, come Luciano Canfora e Jérôme Carcopino, hanno affermato invece che le spedizioni di Cesare furono percepite anche a Roma come atto disumano e ingiusto. Cito due grandi nomi di storiografi, (che hanno tesi opposte a quella di questo testo) per dibattere ed esaminare fino in fondo la questione. Il primo, Canfora, ha 81 anni è professore dell'Università di Bari. Dirige i “Quaderni di storia” e collabora con il “Corriere della Sera”. Il secondo, Carcopino, è nato nel 1881, ha insegnato storia di Roma in diverse università, anche a Parigi. È stato anche direttore dell’École française a Roma (istituto di ricerche storico-archeologico). Nel suo libro dedicato a Giulio Cesare, Luciano Canfora, riguardo alle guerre contro Usipeti e Tencteri ³, scrive: “I Germani continuavano a premere per un accordo; Cesare cercava solo un pretesto per massacrarli. Ma fu con l’inganno che ebbe ragione di loro. …. Nonostante l’incidente i capi germanici si recarono al previsto incontro con Cesare. Il quale li ricevette a colloquio, ma li fece trucidare a tradimento; quindi assaltò gli avversari sbandati e senza guida, ed estese indiscriminatamente il genocidio a tutti, donne e bambini inclusi. Come crimine disumano questa ecatombe fu percepita anche a Roma, dove Catone, per ragioni beninteso di lotta politica interna, si spinse a chiedere la consegna del proconsole al nemico. La presumibile assenza di autentiche motivazioni umanitarie nella proposta di Catone non deve indurre a sottovalutare l’iniziativa del tenace oppositore. Era significativa comunque che l’enormità del crimine compiuto era percepita. Nondimeno il Senato, in preda ad una “ubriacatura imperialistica” (secondo l’espressione di Carcopino), concesse in onore della carneficina cesariana una colossale supplicatio.” La definizione di crimine o atto criminale si basa sul rispetto delle leggi vigenti al momento in cui l'azione è compiuta. Durante l'era di Cesare, le leggi applicabili erano quelle consuetudinarie dello ius gentium e fetiale, che erano state tracciate in modo generale da Cicerone e successivamente definite in modo più specifico da figure come Ulpiano, politico e giurista romano del II secolo d.C. Queste norme trovavano fondamento nel mos maiorum e nelle consuetudini vigenti in epoca romana. La distinzione diviene evidente quando si considera la pratica della schiavitù: mentre secondo Ulpiano questa pratica era in contrasto con lo ius naturale, secondo cui tutti gli uomini nascono liberi, era perfettamente legittima nell'ambito dello ius gentium ed era accettata consuetudinariamente tra le diverse società civili. L'accusa di Catone non trattò in alcun modo il numero delle vittime, che presumibilmente includono non combattenti (quando una parte dei Germani cercò di fuggire con donne e bambini, Cesare inviò la cavalleria contro di loro), bensì si concentrò sull'arresto degli ambasciatori e sulla violazione di una tregua in atto. Questo aveva senso, poiché l'inviolabilità degli ambasciatori e il rispetto delle tregue erano pilastri fondamentali dello ius gentium, che, come detto prima, era basato sulla fides. Catone sostenne che Cesare dovesse essere consegnato ai Germani per purificare Roma dall'empio atto e allontanare la sventura che esso portava. Come dice Sparavigna “Solo Catone, acerrimo nemico di Cesare si opponeva. Ripetiamolo ancora una volta: Catone si opponeva alla celebrazione della vittoria perché Cesare li aveva vinti rompendo la tregua. Alla fine del passo di Plutarco troviamo che, fallito il tentativo di far consegnare Cesare ai Germani – era un richiesta puramente retorica – Catone chiede quello che in realtà vuole, e cioè che venga tolto il comando a Cesare.“ Pertanto, prima di criticare l’operato di Cesare e giudicarlo un criminale di guerra, dovremmo conoscere da fonti dirette l’accaduto e poi giudicarlo con occhi non del presente, ma consci delle convenzioni passate. ¹ Il testo di Amelia Carolina Sparavigna ci propone un’analisi di quanto scritto da Cesare nel De Bello Gallico e quanto detto da Plutarco a proposito dell'accusa fatta a Cesare da Catone il Minore di aver violato la tregua con i Germani. Viene inoltre inserito un confronto ulteriore con i testi precedenti e i testi di Luciano Canfora e Jérôme Carcopino, due saggisti e storici. ² Il Cristianesimo nacque dalla predicazione di Gesù che visse all’incirca tra il IV secolo a.C. e il 30 d.C. in Palestina. Rappresentò una grande novità a Roma, poiché i suoi insegnamenti rovesciarono completamente i valori della società romana, motivo per cui questa religione fu per lungo tempo vittima di persecuzioni. Secondo il credo cristiano, i poveri, gli umili e i sofferenti sarebbero stati i primi ad avere l’accesso alla salvezza nel Regno dei Cieli, ottenendo quindi la vita eterna. Questa credenza diede origine ad una nuova visione sociale, attribuendo effettiva importanza a tutti, indistintamente dal ceto sociale, e facendo nascere l’idea che anche l’ultimo fosse effettivamente un essere umano. A Roma al contrario la figura dello schiavo era priva di alcun tipo di umanità. Lo schiavo era visto più come una merce di scambio, la cui vita o morte dipendeva dal padrone, quasi comparabile ad un animale. Con la graduale accettazione della religione cristiana, anche l’opinione comune sugli schiavi e i non romani variò, arrivando al concetto di uguaglianza di tutti gli uomini. Anche questo nostro profondo legame con il Cristianesimo ci ha portati ad una mentalità diversa rispetto a quella dell’epoca di Cesare, per la quale oggi il tema dei diritti umani e libertà personali non ci è estraneo. ³ Secondo Plutarco, l'accusa si basò sull'arresto degli ambasciatori degli Usipeti e dei Tencteri, popolazioni germaniche con le quali Cesare era in colloquio. L'arresto fu seguito da un attacco a sorpresa al campo dei Germani, provocando molte morti. Stime che secondo Plutarco si avvicinano ai 400’000 morti, che sappiamo in realtà essere un numero troppo alto che andrebbe invece abbassato intorno ai 50’000.

Giada Slongo, 4 LSI
Screenshot 2024-02-27 alle 4.59.20 PM.png
Screenshot 2024-02-27 alle 4.58.37 PM.png

DIROTTAMENTO AEREO D.B. COOPER 

“Il dirottatore Fantasma”

Screenshot 2024-02-27 alle 4.58.50 PM.png

In foto si vede il paracadute che D.B. Cooper ha usato per saltare da un aereo dopo averlo dirottato. Ha aperto il portellone posteriore e si è lanciato mentre l’aereo viaggiava a 300 chilometri orari in mezzo ad una tempesta con oltre 200.000 dollari in contanti con sè: ma come ci è riuscito? Questo che leggerete sarà forse l’unico caso tuttora irrisolto nella storia dei dirottamenti aerei, risalente agli anni ‘70 e che è stato citato anche in una scena della celebre serie TV statunitense “Loki”. Prima, però, facciamo una riflessione: come mai è così difficile dirottare un aereo? Oggi, per prendere un volo, noi siamo abituati a numerosi controlli (cani, metal detector,..), ma negli anni ‘70 non era così: era come salire su un autobus con un semplice biglietto che ti permetteva di partire; nonostante questo, tuttavia, dirottare un aereo era comunque complesso anche allora, perchè portare armi sull’aereo senza farsi riconoscere, trovare un modo per prendere in ostaggio l’equipaggio, evitare di farsi uccidere,venire a trattative con la polizia o riuscire addirittura a scappare vivi facendo perdere le tracce era chiaramente difficilissimo. Giusto per darvi un'idea: nel 1971 - anno della nostra storia - ci furono ben 61 dirottamenti, avvenuti complessivamente per mano di 103 dirottatori, tutti o identificati o morti, tranne per quest’ultimo caso, di cui fu protagonista l’uomo in foto: 45 anni, alto circa 1.80, capelli scuri, occhiali da sole, vestito come un uomo d’affari con una valigetta in mano e un biglietto di sola andata per Seattle a nome Dan Cooper. Questo l’identikit del dirottatore, e sono le uniche cose che ancora oggi sappiamo su di lui. Quando il 24 Novembre 197,1 a Portland, salì a bordo, nessuno sospettò nulla, eppure lui aveva un piano preciso: dirottare un Boeing 727, un aereo molto diffuso a quel tempo. La sua velocità di crociera era di 900 km/h e, come molti aerei dell’epoca, aveva una scala posteriore per l’imbarco dei passeggeri; sembrano informazioni inutili ma ci serviranno per capire meglio la vicenda. Il volo da Portland fino a Seattle era abbastanza breve, di circa 40 minuti, durante i quali Dan avrebbe dovuto trovare anche un modo per prendere in ostaggio l’equipaggio e i piloti, senza farsi notare dai passeggeri e generare tra loro il panico. Una volta atterrato a Seattle, si sarebbe fatto consegnare i soldi dalla polizia, avrebbe fatto scendere i passeggeri e costretto i piloti a ripartire con lui verso Città del Messico; durante il volo si sarebbe paracadutato dal portellone con i borsoni di soldi facendo perdere ogni traccia di sè. Un piano tanto perfetto quanto rischioso. Alla partenza sull'aereo risultavano occupati 36 posti su 131 disponibili, Cooper si siede in fondo, si accende una sigaretta (fumare a bordo era consentito) e ordina bourbon soda; poi chiama un’assistente di volo e le passa un biglietto: “ Ho una bomba nella valigetta, la userò se necessario. Voglio che tu ti sieda accanto a me” e apre la valigetta per mostrarle i candelotti di esplosivo. Vuole 200mila dollari in banconote non segnate e di piccolo taglio - circa un milione di dollari attuali -, un'autobotte a Seattle per rifornire l’aereo sul quale si trova e poi quattro paracadute, sui quali torneremo in seguito. Dopo aver letto il biglietto, la hostess cerca di mantenere la calma, prende il telefono e chiama la cabina di pilotaggio per riferire le richieste di Dan; i piloti però devono prendere tempo in attesa che la polizia recuperi i soldi e, quindi, comunicando ai passeggeri problemi tecnici, iniziano a volare sopra l'aeroporto seguendo le indicazioni del dirottatore. Intanto si fa buio e qui sorge il primo problema: per la polizia sarebbe più facile colpirlo con un fucile da cecchino ma Dan, più furbo, spegne le luci interne dell’aereo. Una volta atterrato, vengono fatti sbarcare i 36 passeggeri ignari di tutto, e Dan, rimasto solo con l’equipaggio, riceve la somma richiesta e i paracadute. Ma come mai ne chiese proprio quattro? Per il semplice motivo che, se ne avesse chiesto solo uno, gli agenti avrebbero potuto manometterlo, mentre, chiedendone quattro, non potevano prevedere quale sarebbe andato al dirottatore e quali invece all’equipaggio. Consegnato il tutto, l’aereo è pronto per ripartire verso Città del Messico: Dan entra in cabina di pilotaggio ordinando ai piloti, con la minaccia dei candelotti, di mantenere una bassa quota e una velocità inferiore a 370 km/h, mettendo così a rischio la vita di tutti, dato che la bassa velocità diminuisce la manovrabilità dell’aereo e la bassa quota può provocare uno schianto. Dan quindi esce dalla cabina e si dirige verso il fondo dell’aereo, i membri dell’equipaggio restano in contatto con lui tramite l'interfono, finchè alle 20:12 i piloti notano che è stata attivata la spia dell’apertura del portellone e quella dell'abbassamento della scala; da quel momento non si sa più nulla di lui. Nel frattempo, nei cieli si scatena un temporale e l’aereo atterra alle 22:15 in Nevada, di Cooper non c’è alcuna traccia a bordo. E’ ancora vivo? E’ riuscito a compiere la sua impresa senza morire? Non si sa: solamente grazie ad indagini successive, si scopre che Dan Cooper non solo era uno pseudonimo, ma era il nome di un abile aviatore ed esperto paracadutista protagonista di diverse storie a fumetti degli anni Cinquanta. Dopo nove anni di silenzio sul caso e sulle ricerche del dirottatore all’improvviso un indizio venne trovato da un ragazzino, Brian Ingram: costui, mentre giocava sulle rive del fiume Columbia, trovò sotto la sabbia 5800 dollari in tre pacchi di banconote, che, analizzate in laboratorio, riportavano lo stesso numero seriale delle banconote consegnate a Dan. Ancora oggi non si sa come siano finite lì: forse le ha sepolte Dan di proposito, oppure sono state perse durante il salto dall’aereo? Resta, dunque, il dubbio se Cooper fosse un geniale truffatore all’Arsenio Lupin o un folle che, forse, nel lanciarsi dal veivolo è morto in mezzo al temporale.

Silvia Marchesan,  4B LCE
Screenshot 2024-02-27 alle 4.59.35 PM.png
bottom of page