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Numero
Febbraio

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CAMPAGNA DI RUSSIA ITALIANA E NIKOLAJEWKA

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OPERAZIONE BARBAROSSA: UNA MASTODONTICA IMPRESA A metà 1940, l’andamento della guerra mondiale appare segnato: niente sembra essere in grado di arrestare l’espansione tedesca, guidata dal regime nazista. A rifiutare una pace imposta da Hitler è l’Inghilterra di Churchill, ma il fuhrer valuta che sia solo una questione di tempo: se si invadesse l’Unione Sovietica, e ci si impossessasse delle sue enormi risorse agricolo/petrolifere, nessuno potrebbe opporre ancora resistenza allo strapotere tattico del Terzo Reich. Inoltre, un’invasione della Russia sarebbe coerente con i programmi ideologici del partito nazista: i popoli sovietici sono visti come una razza inferiore, e il loro Paese è retto dal partito bolscevico, ed il bolscevismo è uno dei nemici principali della propaganda nazionalsocialista. L’aggressione alla Russia, che nei piani tedeschi prende il nome di “Operazione Barbarossa”, è presentata quindi come una “crociata contro il bolscevismo”. Il 22 giugno 1941 ha inizio l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica. PERCHE’ L’ITALIA SI TUFFA IN QUESTA AVVENTURA? L’alleanza tra la Germania e l’Italia non è assolutamente basata sulla fiducia reciproca, né è giustificata da una parità di risorse. Mussolini si convince della necessità di portare avanti una guerra “parallela” a quella della Germania, che possa permettere all’Italia di conquistare il minimo indispensabile per presentarsi ai tavoli delle trattative al fianco dei vincitori. C’è il rischio che l’Italia entri in campo a partita ormai conclusa, e per questo Mussolini scalpita affinché i soldati italiani diano il loro contributo sul fronte russo. Un contributo che, in realtà, neanche i tedeschi considerano necessario. Ma Mussolini insiste, e Hitler alla fine accetta. Viene costituito il CSIR - Corpo di Spedizione Italiano in Russia. Il CSIR è composto da 63.000 effettivi. Il Corpo parte il 26 giugno 1941, trasportato a bordo di 255 treni, e viaggia tra Austria, Ungheria e Romania fino al confine con l’URSS. Già da quando le truppe italiane devono avanzare autonomamente all’interno del territorio russo, emergono i primi problemi logistici, poiché le truppe sarebbero, sulla carta, tutte autotrasportabili, ma all’incirca solo la metà di tutte le divisioni è fornita di mezzi propri. Difficoltà logistiche che non sembrano appartenere ai tedeschi, che fino alla fine del 1941 proseguono inarrestabili. Il CSIR deve seguire le armate tedesche comprendo loro il fianco sud, quindi schierandosi nei territori dell’attuale Ucraina. Tutte le truppe italiane sono ammassate lungo il fiume Don. WEHRMACHT: ATTACCO SU VASTA SCALA Mentre gli italiani si tengono preparati per un eventuale attacco russo, la Wehrmacht avanza verso Stalingrado, ed ingaggia lo scontro frontale contro l’Armata Rossa. La logica tattica sostenuta dai generali tedeschi è quella di direzionare tutte le forze verso Mosca, che è la capitale nemica ed è il punto dove tutte le linee di comunicazione e rifornimento russe confluiscono. Ma Hitler è in disaccordo con il suo Stato Maggiore, per lui la tattica migliore è una manovra a ventaglio, effettuata occupando vasti territori contemporaneamente, con un occhio di riguardo per l’occupazione di quelle che lui chiama “cittadelle del bolscevismo”, ovvero Leningrado e Stalingrado. Con la manovra a ventaglio, il fuhrer è convinto di poter occupare allo stesso momento il nord, il centro ed il sud della Russia, ma il prezzo si rivela alto: questa manovra causa una dispersione di forze immensa, che si rivela sempre più ingestibile. I generali contestano Hitler, ma non disobbediscono e procedono con l’esecuzione del suo piano. L’avanzata tedesca incontra nel settore di Stalingrado una dura resistenza sovietica: la situazione è in stallo e le piogge, il fango e poi l’inverno non fanno altro che peggiorare la situazione. ARMIR: IN DIFESA SUL DON Gli italiani, intanto, lungo il fiume Don, aspettano nei loro rifugi sotterranei, non sfiorati dai combattimenti in corso. All’inizio del 1942, i tedeschi valutano che un altro contingente italiano sarebbe risultato utile, e Mussolini è disposto ad inviarglielo. Il CSIR viene ampliato, e diventa un’armata completa, chiamata ARMIR - Armata Italiana in Russia. L’ARMIR comprende in tutto i soldati del vecchio CSIR con in più altri 100.000 uomini, a cui è affiancato anche il Corpo d’armata alpino, con le divisioni Tridentina, Julia, Cuneense. Tra il 20 ed il 28 agosto 1942, i russi portano il primo attacco alle postazioni italiane: è la Prima battaglia difensiva del Don. I russi hanno la meglio, gli italiani ripiegano dalla sponda sud del Don verso il medio-alto corso del fiume. La terza Armata romena, anch’essa alleata delle forze dell’Asse, viene a propria volta mandata a sud del Don a coprire la falla. I sovietici fanno scattare il 19 novembre 1942 l’”Operazione Urano”, che porta con una rapida azione l'accerchiamento della Wehrmacht nel settore sud delle operazioni. A Stalingrado l’Armata Rossa vince e sposta in maniera irreversibile il vantaggio tattico dalla propria parte. Nel frattempo, lungo il Don, l’intera ARMIR radunata si rinsalda sulle sue posizioni difensive, con a sud la terza Armata romena e a nord l’Armata ungherese. DIFESA FACCIA A FACCIA, ED E’ RITIRATA Il 19 novembre 1942 i russi attaccano la terza Armata romena. I romeni sono sbaragliati, ed il loro crollo rende libero il passaggio ai russi per poter investire gli italiani. L’ARMIR ha in campo, per fermare la controffensiva russa, le tre divisioni alpine “Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”, le divisioni d’Armata “Cosseria”, “Ravenna”, “Pasubio”, “Torino”, “Celere” e “Sforzesca”. Sono quindi complessivamente 96 battaglioni di fucilieri, 123 batterie d’artiglieria, 50 mezzi corazzati. I sovietici schierano 115 battaglioni di fucilieri, dei quali 25 motorizzati, 30 battaglioni di carri armati, 200 pezzi d’artiglieria, 300 cannoni anticarro, 200 lanciarazzi. Il 16 dicembre 1942 inizia lo scontro, la “Seconda battaglia difensiva del Don”. L’esito è la rottura del fronte italiano lungo il Don. Inizia la ritirata. La temperatura ha raggiunto i limiti della sopravvivenza umana, toccando i - 40°, e tutti i mezzi sono inutilizzabili. Il Corpo d’armata alpino comincia la marcia di ritirata con la divisione Tridentina in testa alla colonna, con alle spalle la Cuneense e la Julia. La ritirata avviene con una lentezza estrema, causa l’ammassarsi di numerosi sbandati, più di 10.000, lungo e dietro le colonne in marcia, tant’è che i sovietici possono accerchiare indisturbati queste colonne. In pratica, i resti dell’ARMIR, ritirandosi, stanno in realtà andando incontro al nemico. NIKOLAJEWKA Giunti al 20 gennaio 1943, tra i reparti alpini l’unica unità rimasta quasi del tutto integra è la divisione Tridentina. L’itinerario, una volta abbandonato il Don, ha incluso le seguenti tappe: Postojali, Charkovka, Scheljakino, Ladomirovka, Molakijeva, Romanciova, Nikitovka, Nikolajweka. Lungo il percorso, gli sbarramenti sovietici che gli italiani hanno incontrato sono stati posti a Rossos, Skororjo, Postojali, Scheljakino, Nikitovka, e l’ultimo a Nikolajewka. Proseguendo nella marcia, arriva il giorno dell’ultima battaglia. La Tridentina, in testa, giunge di fronte a Nikolajewka. Nikolajewka è un grosso paese, che gli alpini guardano da una posizione sopraelevata. E’ il 26 gennaio 1943, il giorno della battaglia finale, dove o si infrange l’ultimo sbarramento russo, o nessun ritorno a casa sarà possibile per chi è rimasto in vita. Al di là di Nikolajewka c’è una ferrovia, lì i superstiti potranno essere raccattati su dei treni e portati via. Perciò, bisogna piombare su Nikolajewka e cacciare i russi. I soldati stanno per combattere la loro ultima battaglia con uno stomaco da giorni vuoto, con 35 gradi sotto lo zero, con i piedi infilati direttamente nella neve. Alle ore 12 inizia lo scontro. A ondate, tutti gli italiani provano ad assalire Nikolajewka per giungere alla ferrovia. Verso sera metà paese è conquistato, ma i soldati sentono di non poter più reggere. La massa di sbandati è in preda alla confusione, nella neve. Il capo di Stato maggiore alpino, Giulio Martinat, tenta di guidare l’ultimo assalto, ma rimane ucciso. Ci prova allora il generale alpino Luigi Reverberi, che sale su un semovente ed urla “Tridentina avanti!”, avanzando da solo verso il paese. Con questa esclamazione Reverberi passa alla storia. La massa di sbandati è galvanizzata da tale coraggio, e come una valanga invade le strade di Nikolajewka, cacciando via i restanti russi. Tutti i soldati attraversano un sottopasso ferroviario, e sono così al di fuori della sacca di accerchiamento sovietica. E’ finita. Per trasportare in Russia tutti i soldati italiani, erano serviti più di 200 treni. Per riportarli in Italia, ne bastarono 17.

Deana Giuseppe, 4A LSU
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