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Numero
Novembre

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Il disastro del Vajont

In questo articolo parlerò del disastro del Vajont, uno dei tanti disastri causati principalmente dall'ignoranza e dalla taccagneria dell’uomo. Per capire bene le cause del disastro , bisogna però, prima spiegare quello che è successo: Nel 1929 , un ingegnere di nome Carlo Semenza realizzò il primo progetto (concreto) per la costruzione di una grande diga nella valle del Vajont. La valle del Vajont è una valle situata al confine tra FVG e Veneto , la diga era nei pressi del Monte Toc vicino al comune di Erto-Casso e il torrente Vajont (il serbatoio) che scendeva giù per questa stretta valle fino a confluire nel Piave che si trova sottovalle ed infine sulle sponde del Piave si trova(va) il paese di Longarone. L’idea era di mettere la diga tra il monte Toc e la valle di Erto-Casso, proprio dove sfocia il torrente Vajont, in modo da bloccargli il passaggio e creare un bacino artificiale . Questa zona montuosa fu scelta soprattutto per le valli strette e profonde, zona che si pensava perfetta per la costruzione di una diga , lo scopo di questa diga era usare l’energia elettrica prodotta (sotto forma di potenza idrica)dalla diga, in modo tale che anche quando il fiume Piave era nei suoi periodi di secca, Venezia e tutto il Triveneto potevano avere la corrente elettrica tutto l’anno .I lavori non iniziarono subito poiché le difficoltà economiche dell’epoca non lo permettevano, quindi si dovette fino al 1956 quando la SADE : Società Adriatica di Elettricità, società elettrica privata di proprietà di un certo Giuseppe Volpi di Misurata (che era stato anche ministro delle finanze durante il periodo fascista) prese in mano il progetto. Il progetto consisteva in una diga alta 200 metri che riusciva a contenere 58 milioni di metri cubi d’acqua (per farvi capire, le altre 7 dighe vicine , sommate, arrivavano insieme a 68 milioni di metri cubi d’acqua, e qui sono 58 milioni in una sola). Appunto per questo motivo il progetto verrà denominato ‘’ Grande Vajont’’e nonostante la seconda guerra mondiale, la SADE riesce a far passare il progetto il 13 ottobre 1943 . Nel 1948 il comune di Erto-Casso vende alla SADE il territorio che serviva per costruire la diga, territori che erano inizialmente dei cittadini di Erto-Casso , e iniziarono le prime proteste degli abitanti dei due paesi , ma furono completamente ignorate. Finalmente nel 1956 la SADE apre il suo cantiere e non solo, la SADE ( in realtà sempre Carlo Semenza) cambia il progetto: non più 200 metri d’altezza com’era scritto nel progetto preliminare, bensì 261,60 metri quindi di conseguenza non più 58 milioni di metri cubi d’acqua ma 150 milioni di metri cubi d’acqua (2 volte e mezzo la somma di tutti i serbatoi delle dolomiti). Venne chiamato nel 1956 il geologo Giorgio Dal Piaz ( amico di Carlo Semenza, nel 1929 furono i primi a fare i controlli per la diga ) e gli fu mandato il nuovo progetto , Dal Piaz lo accettò subito (senza alcun controllo) il 1° aprile 1957, e firmò pure la relazione geologica sull’alto Vajont, l’unico problema era che questa relazione era quella del 1930 quindi non furono contate le nuove variazioni! Il progetto e la relazione vennero mandati al ministero che a sua volta li accettò il 15 giugno. Altri geologi vennero mandati per controllare la diga, tra cui : -Edoardo Semenza, figlio di Carlo Semenza, lui trovò evidenti pericoli derivanti da una zona di rocce metamorfiche non cementate lunga circa 1,5 km e questo lo indusse a ipotizzare dell’esistenza di una paleofrana (una frana sottoterra che non è ancora ‘crollata’’). - Leopold Muller, geologo austriaco, che disse espressamente alla SADE di fermare i lavori poiché il territorio era molto instabile (lui a differenza di E. Semenza non ipotizzò mai una paleofrana). -Francesco Penta, geologo e ingegnere napoletano che disse di aver trovato alcune piccole instabilità ma non consigliò mai di abbandonare i lavori ( dai documenti della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont , risulta che , come fece Carlo Semenza, anche lui cercò di minimizzare il rischio legato alla frana, rischio che trovarono sia E.Semenza che L.Muller) Intanto nel 1959 iniziarono delle prove d’invaso sulla diga di Pontesei, diga a pochi chilometri da Longarone ( costruita dall'ingegnere Carlo Semenza con la consulenza del geologo Penta), da un po’ di tempo si notava che una delle due sponde del serbatoio stava cedendo (inclinazione degli alberi, fessurazioni sul terreno...), quindi si decise di togliere un po’ di acqua dal serbatoio per evitare che cascando la frana, provochi un'onda che potrebbe scavalcare la diga e causare danni a valle ( per farvi capire, immaginate di avere un bicchiere d’acqua quasi pieno, immaginate di buttarci sopra un sasso abbastanza grande, succede che l’acqua fuoriesce dal bicchiere e bagni il tavolo o dovunque sia, e quello che succederà il 9 ottobre 1963 nella valle del Vajont). Però accade un fatto non previsto, nel momento in cui iniziano ad abbassare il livello dell’acqua del serbatoio, la frana accelera.Nel giorno della domenica delle Palme la frana cede, e alza un’onda di 20 metri uccidendo una sola persona, si dirà che questo evento anticipò il Vajont, ma soprattutto confermò che quei territori erano instabili. In tutto questo la SADE decise di continuare a costruire la diga. Nel 1960 accadde un altro fatto, ci fu una frana di 800.000 metri cubi , a questo punto ritornò Leopold Muller che diede una serie di consigli su come prevenire la frana ma nessuno di questi era fattibile, sempre in quell’anno arrivò il sismologo Pietro Caloi, che aggiunse ancora più benzina sul fuoco, i suoi risultati rilevarono 150 m di roccia fratturata nei pressi del Monte Toc. Al fine di preservare l'impianto, seguendo il consiglio di Müller, fu deciso di avviare una procedura di svuotamento controllato del serbatoio, che ebbe inizio il 17 novembre. Questa operazione era pianificata per ridurre gradualmente il livello dell'acqua di 5 metri nei primi 2 giorni, seguiti poi da un'interruzione di 4-5 giorni, e così via, fino a raggiungere un livello di 600 metri entro dicembre.Questa procedura aiutò l’arresto temporaneo della frana. Al fine di drenare la massa, seguendo il suggerimento di Muller, fu considerata la possibilità di realizzare un'apposita galleria che avrebbe avuto il compito di canalizzare l'acqua del serbatoio inferiore.. Questa galleria avrebbe rivestito un ruolo di notevole importanza, poiché serviva a rallentare ancor di più il movimento della frana, ma non fu mai costruita per paura di peggiorare la situazione con gli scavi. Poi ci fu un’altra galleria di ‘’sorpasso frana’’, voluta da C.Semenza per impedire che se la valle fosse stata divisa in due dalla frana, si producesse un innalzamento incontrollato del livello del lago a monte, che a sua volta poteva causare danni seri al paese di Erto, questa a differenza dell’altra galleria venne completata il 5 ottobre del ‘61. Dopo aver scoperto così tante instabilità del monte Toc, fu deciso di approfondire gli studi con una serie di esperimenti affidati ai professori Ghetti e Marzolo, dalla relazione di Ghetti si determinò che ponendo un limite di invaso a quota 700 m non si sarebbero avuti danni sopra quota 730 m s.l.m. lungo le sponde del serbatoio, mentre una minima quantità d'acqua avrebbe superato il ciglio della diga (722,5 m) procurando piccoli danni. Il 6 dicembre 1962 con la pubblicazione della legge 1643 , viene istituita l’ENEL, e con essa il trasferimento di tutte le società private di energia elettrica, e tra queste c’era la SADE, il problema era che lo Stato pagava per ogni impianto portato a termine e la diga del Vajont era ancora da finire. , di conseguenza la SADE velocizzò i tempi. Il primo collaudo fu effettuato il 4 novembre 1960 (con quota raggiunta : 650 m.s.l.m) ma si dovette fermare e svuotare la diga siccome si verificò una frana. Dopo la costruzione della galleria di ‘’sorpasso frana’’ si effettuò un altro invaso sperimentale,questa volta non ci fu nessuna frana, ma controllando i movimenti della frana , si venne a sapere che questi movimenti ripresero lentamente , procedendo a 1,5 cm al giorno , e ancora una volta si decise uno svaso. Infine il terzo , avvenuto ad aprile 1963 (dopo la nazionalizzazione) dove si arrivò fino a 710 m.s.l.m, per un periodo la frana restò ferma ma dopo un po’ continuò a muoversi di ben 2 cm al giorno, allora iniziò lo svaso per arrivare a 700m come aveva consigliato Ghetti, questo svaso durerà fino al 9 ottobre, giorno in cui si arrivò a quella quota e , purtroppo, il giorno in cui avvenne il disastro. In quel triste giorno morirono circa 2000 persone, non a causa della natura ma a causa dell’uomo, perché ricapitolando : La SADE vuole creare una diga di dimensioni gigantesche e riesce a far accettare il progetto tramite Dal Piaz che firma oltre al progetto in sè, anche la relazione geologica del 1930(Cioè vecchia di 27 anni)! La SADE ha completamente ignorato i consigli (importantissimi) di Muller e di E.Semenza e ha anche ignorato le continue proteste degli abitanti La SADE ha pure deciso di aumentare ancora di più la capacità del serbatoio portandola a 150 milioni di metri cubi d’acqua La SADE nonostante le evidenti prove del fatto che quel territorio era instabile ( la frana a Pontesei, il fatto che la frana continuava a scendere man mano che si togliesse acqua, la frana accaduta nella domenica delle Palme del ‘59 e che tra l’altro uccise un uomo) (questo fatto non era scritto nell’articolo) Una giornalista di nome Tina Merlin, che scriveva per l’unità, scrisse molti articoli e un libro in cui descrive tutte le instabilità del Vajont (con tutte le prove)e in cui criticava la SADE per il suo disinteresse sulla sicurezza degli abitanti di quelle valli,venne denunciata ingiustamente dalla SADE per diffamazione , infatti ne uscì indenne, La SADE cercò di velocizzare la costruzione della diga prima della nazionalizzazione dell’energia soprattutto per il proprio profitto Nonostante ci fossero segnali di instabilità e movimenti del terreno, la SADE non ha avvertito adeguatamente la popolazione locale dei rischi imminenti. Ma la cosa più triste è che l’uomo non ha ancora imparato dai suoi errori, perché dopo il Vajont , ci sarà anche il Ponte Morandi, Černobyl,... e la maggior parte di questi disastri avvengono a causa del denaro( basta pensare a quante guerre ,in realtà , iniziarono per il denaro).

Nicolo Marko Blagojevic, 2^A SLI
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TENIAMO VIVO IL RICORDO: LA TESTIMONIANZA DI CHI C’ERA

Il giardino dei Finzi-Contini

9 ottobre 1963. Una frana si stacca dal versante del monte Toc, precipitando all'interno del neonato impianto idroelettrico, costruito per deviare il corso del torrente Vajont. Mai decisione fu più sbagliata. Il bilancio dei morti non è sicuro, ma il numero si aggira attorno ai 2000. All'epoca dei fatti cuoca presso la SADE e sopravvissuta al Disastro grazie ad una provvidenziale sostituzione, che l’ha portata ad essere lontana da Erto e Casso, nel suo racconto riporta in prima persona l’esperienza di lavoratrice e cittadina nel paesino dilaniato dall’incuria umana. Quando e dove sei nata? Da chi era composta la tua famiglia? Sono nata nel comune di Erto e Casso, nei pressi di Longarone, il 26 gennaio 1932. La mia famiglia era composta da mia mamma Maria, i nonni, le zie Margherita e Tonina. Mio padre, invece, non lo ho mai conosciuto. Qual è il tuo collegamento con le vicende del Disastro del Vajont? Mi hanno assunta alla SADE (Società Adriatica di elettricità - n.d.r) e lì lavoravo come cuoca; vi ho lavorato fino al giorno in cui, poco prima del disastro, mi hanno sostituito con una ragazza, precedentemente licenziata, ma riassunta in seguito perché facente parte del contratto dalla SADE all’ENEL. Ti ricordi di un episodio, precedente al Disastro, che ti ha fatto presumere che qualcosa di sospetto stesse accadendo ? In una notte di settembre, alle due dopo mezzanotte, è arrivata un’onda fortissima. Io e la mia collega abitavamo in una baracca alle pendici del monte Toc, nei pressi del cantiere della Diga. Quest’onda è arrivata sino alla nostra piccola casupola, allagandola completamente. Appena siamo uscite, abbiamo sentito delle grida, tutti erano sconvolti per quanto accaduto. Ho provato a chiamare il comando dei telefonisti alla Diga, ma nessuno rispondeva: la frana aveva bloccato i fari, la linea telefonica e qualsiasi mezzo elettronico. Alle cinque sono arrivati con l’elicottero gli ingegneri da Venezia, che ci hanno rassicurato dicendoci che non avremmo corso nessun pericolo, siccome la frana aveva alzato un’onda di soli 30/40 metri. Ma questo era bastato per allarmarci e spaventarci. Ti è rimasto impresso nella mente qualche peculiarità della Diga? Si lavorava spesso anche nei giorni festivi: a chi spettava il giorno di Natale era costretto a prestare servizio. Dopodiché ricordo bene che il mio lavoro consisteva nel preparare delle cassettine in cui si inseriva solitamente un po’ di pasta, un secondo con contorno e l’acqua. Una volta pronto, andavo alla Centrale e prendevo il primo ascensore, che si fermava a metà Diga e in seguito salivo su quello che scendeva a fondovalle, nel punto in cui sono situate le turbine. Un’ altra caratteristica che ho presente tutt’oggi risale a quando, la mattina, bevevo il caffè con il Capo Centrale e notavo la presenza di alcune bollicine marroncine che gorgogliavano sul pelo dell’acqua. Incuriosita gli avevo chiesto se questa cosa fosse normale e lui mi aveva risposto che si trattava di assestamento del lago. In seguito ho scoperto che non aveva niente a che vedere con l’assestamento, ma era anzi l’acqua che già erodeva le pareti della montagna. Quell’errore fatale che ha causato la strage di migliaia di persone.

Asia Clemente, 1^A LCE

La prossimità agli orrori dell’Olocausto ci rende meno inclini all’odio?

La vita nella comunità ebraica di Ferrara scorre tranquilla. Nel 1938 vengono però promulgate le leggi razziali, che colpiscono le famiglie ebree e escludono i giovani dalle scuole o associazioni ricreative e culturali. Per questo motivo Ermanno e Olga Finzi-Contini aprono le porte del proprio giardino a un gruppo di coetanei dei propri figli, Alberto e Micòl. Tra questi giovani c’è anche l’io narrante, da molto tempo attirato da quel giardino e dal comportamento criptico di Micòl. Il protagonista, innamorato della ragazza, non si decide a dichiararsi, ma nel frattempo lei si reca a Venezia per studio, come per segnare un limite tra il loro legame. Al suo ritorno, l’amore entusiasta del protagonista non viene ricambiato: il loro rapporto comincia a incrinarsi e il giovane sprofonda nella tristezza, che tenterà di colmare invano. Ma quando riuscirà a porre fine alle proprie illusioni e speranze irrealizzabili, la guerra busserà ormai alla porta. È quindi la deportazione a segnare la fine di questa storia, costellata da tornei di tennis, giri in bicicletta, tramonti, baci, reticenze? Alla fine, l'unica cosa che rimane è solo la consapevolezza di una fine, alla quale non ci si può ribellare? Nel prologo, durante una visita alla necropoli etrusca di Cerveteri, nel 1957, il protagonista riflette brevemente sul rapporto tra la vita e la morte, il presente e il passato. Torna indietro con la memoria a Ferrara, alla tomba monumentale dei Finzi-Contini, la quale contiene i resti di un solo membro della famiglia, Alberto; gli altri furono , come tanti altri, vittime degli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Nel romanzo, essi non vengono brutalmente denunciati, ma accennati in maniera più sottile e profonda, che si rivela anche più immediata. Una volta giunta all’epilogo del romanzo, esso ha suscitato in me una viva riflessione su quello che è stato il triste destino della famiglia Finzi-Contini, generata probabilmente anche dalla pressoché simile età che condivido con i protagonisti. Nello stesso periodo ho avuto l'occasione di visitare il campo di concentramento di Dachau; mentre mi trovavo lì, mi sorse una domanda: la vicinanza a un tale luogo rende meno propensi al razzismo? La risposta più ovvia sarebbe sì, ma in pratica non è sempre così scontato. Come dimostra una ricerca pubblicata sull’American Political Science Review da un gruppo di sociologi diretti da Jonathan Homola della Rice University, la prossimità con ex campi di concentramento è maggiormente incline ad aumentare la xenofobia, il razzismo e l'appoggio all'estrema destra nelle persone, quasi come se fosse un veleno, che viene assorbito dal terreno. È dimostrato che la gente attorno ai lager fosse a conoscenza delle terribili condizioni dei prigionieri, ma per superare il disagio e sensi di colpa, accettò il concetto percepito della loro “inferiorità”. Nei campi come Dachau però, che sono ora diventati memoriali, questo effetto è molto minore, rafforzando la consapevolezza dell’accaduto. Con il giardino dei Finzi-Contini, Bassani ci regala un romanzo di formazione con un richiamo ambizioso alla morale della tragedia greca, che vuole essere un omaggio memoriale per quel gruppo di israeliti, suoi concittadini ferraresi e non, destinati alla morte nei lager, per restituirli alla vita attraverso l’arte. Sono la malinconia e la perdita i sentimenti predominanti nel romanzo, così come le deluse aspettative adolescenziali. Eppure esso ha l’amore al centro del proprio cuore, poiché è il mezzo migliore attraverso il quale narrare una storia. Anche la più difficile. E così la vita della comunità ebraica di Ferrara, i sogni giovanili, l’amore genuino del protagonista per Micòl, lo stesso giardino simbolo del paradiso perduto, la vita dignitosa e riservata dei Finzi-Contini sono narrati con la dolente consapevolezza del dopo, della loro fine. Tutti elementi che si aprono in una prospettiva più ampia, che coinvolge l’interiorità di ogni creatura umana; e così tutto il romanzo diventa una meditazione sull’inevitabile legge di distruzione e della morte che domina il destino degli uomini.

Eva Manti, 3^A LCE
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